Di recente ho avuto l’idea di ricordare il cosiddetto “eritema da fuoco”, malattia della pelle correlata in passato alla necessità di utilizzare il caminetto come unico mezzo di riscaldamento; ho avuto, perciò l’occasione di ripensare al temutissimo clima invernale di Capracotta, che tuttavia molti rimpiangono, specie considerando il cosiddetto “riscaldamento globale”.
Neanche a farlo apposta, quasi contemporaneamente, mi sono commosso e, al tempo stesso divertito, osservando alcune vecchie fotografie del 1956 che hanno operato la magia di ricondurmi idealmente al nostro…”piccolo mondo antico”: e in particolare alla sua neve, allora così abbondante e compagna insostituibile di giochi per noi bambini.
Resistendo per una volta alla tentazione della nostalgia, il mio pensiero è riandato alla lunga stagione invernale di tanti anni fa, compresi i più comuni inconvenienti cui si era, inevitabilmente, esposti: ed è superfluo premettere che gli indumenti di allora non erano certo i più idonei a proteggere dal freddo: specie restando per ore all’aperto come facevamo noi.
È stato istintivo il confronto con le foto recenti dei miei nipoti, più che protetti sulla neve di Prato Gentile, e mi sono chiesto come facessimo a sopravvivere allora; i più fortunati come me, infatti, disponevano i scarponi confortevoli, di calze o di guanti che non erano, tuttavia, impermeabili; al contrario era grande il disagio ed ancor maggiore il rischio per i più svantaggiati di cui pure, paradossalmente, appariva incredibile la resistenza fisica: che sorprendeva soprattutto mia nonna, originaria della pianura padana e ancora spaventata da un clima così rigido.
Ci trovavamo nel periodo appena successivo alla seconda guerra mondiale e, ora che questa parola è di nuovo tristemente attuale, mi ha impressionato il particolare inquietante che si nota sullo sfondo della foto inserita nel mio racconto, che mi ritrae a circa 12 anni di età insieme alla cuginetta Maria Luisa (Mosca); sono i ruderi di una delle tante case distrutte e non ancora ricostruite, proprio nella zona dove adesso c’è l’edifico parrocchiale con la moderna scuola di Capracotta.
Inutile sottolineare che eravamo sempre intirizziti, ma tanto, tanto felici e sono innumerevoli i ricordi di quel fiabesco periodo; ad esempio quando, fino a sera inoltrata nei giorni di plenilunio, mi attardavo con l’amico Ezio (De Renzis) a sciare in località “Colle Liscio”; ancora incapace, infatti, di concludere la discesa con un “arresto” perfetto, finivo ogni tanto per cadere a ridosso di un rivolo d’acqua seminascosto e tornavo a casa inzuppato, se non addirittura con lunghi e sottili ghiaccioli che pendevano dai pantaloni.
Una di quelle sere, a notte fonda, ci raggiunsero preoccupati, il papà di Ezio e mia madre; erano in collera con noi, ma si sciolsero subito in un sorriso indulgente nello scenario del cielo stellato e del luccichio argentato della neve che si fermarono, incantati, ad osservare anche loro.
Tornando al nostro abbigliamento, dimenticavo di aggiungere che uno dei motivi di maggior disagio psicologico era il timore di essere derisi quando si notava quella che, in gergo dialettale, veniva chiamata “pannuccia”;sebbene infatti questo termine, alla lettera volesse dire: pannolino per neonati”, aveva poi finito col significare: “pantalone bagnato nel fondoschiena per le frequenti cadute dagli sci”: il che si traduceva in un marchio indelebile di incapacità e di goffaggine.
C’era così motivo di invidiare il bravissimo e caro amico Vincenzino (Di Nardo) cui, vincendo la sua esitazione, il papà calzolaio aveva applicato su ginocchia e sedere dei pantaloni delle “toppe” in pelle di capretto, davvero efficaci come isolanti; io gli ero comunque molto grato perché regalava, e non solo a me, delle robuste strisce di cuoio, le cosiddette “curéiɘ”,in pratica gli “attacchi” dei nostri, rudimentali sci; esse purtroppo, stante il rapido logorio dovuto al gelo, andavano spesso sostituite ma, in emergenza, bisognava disporre anche di chiodi e almeno di una pietra da tenere sempre in tasca.
In ogni caso nulla ci poteva fermare e, naturalmente, gli sci erano il nostro passatempo preferito pur nella necessità, con la neve fresca, di utilizzarli anche per battere le piste: ad esempio l’amatissimo campetto dietro la mia casa, che ora è un piccolo impianto sportivo, l’altra più isolata del cosiddetto “Trione” o quella più impegnativa e famosa del “Prato di Conti”.
Ce n’era ancora una, mi stava sfuggendo, parimenti nota e frequentata a ridosso della Villa comunale e chiamata “Sott’a Catarina”, forse in riferimento a un’antica abitante di quel quartiere; e mi piace sottolineare che, già all’inizio del secolo scorso, vi erano stati realizzati alcuni splendidi servizi fotografici (1914), ancor prima che a Capracotta ci fosse lo Sci Club: cui si deve, come tutti sanno, la particolare, successiva valorizzazione dello sci nordico, fino ai giorni nostri; in quelle immagini sorprende moltissimo di vedere valorosi pionieri che, senza alcun abbigliamento sportivo, utilizzavano un solo, lunghissimo bastone invece dei due classici bastoncini.
Negli anni ’50 erano uno spettacolo i volteggi di tanti bambini piccolissimi sui loro sci poco più lunghi delle scarpe e ne ricordo diversi che si cimentavano acrobaticamente nella disciplina del “salto” sull’ultima e più ripida delle nostre piste domestiche, quella retrostante il Santuario della Madonna; in tempi remoti, infatti, vi era stato collocato un rudimentale “trampolino” di legno che aveva poi dato il nome all’intera località: altro che moderne gare di “snow-board”! , ma io, mi dispiace confessarlo, non ho mai avuto il coraggio di tentare.
Era molto temuta, in quegli anni, la minaccia di alcuni, severi insegnanti nei confronti di chi era poco diligente o. scorretto a scuola che contemplava il sequestro temporaneo o, in casi estremi permanente, degli sci; ed aggiungo, solo per celia naturalmente, che ho cercato sempre di non esporre i miei (s’intende quelli con le “curéiɘ”) a questo genere di rischio. È incredibile, ma in questo momento ho l’impressione di avere ai piedi quelli di frassino della mia vecchia foto, i primi davvero degni del loro nome. Guai a chi me li toccava!
Solo un cenno, ancora, alla divertente costruzione di giganteschi pupazzi o alle classiche “battaglie a palle di neve”: è vero che, negli anni, molti bambini di quell’irripetibile gruppo hanno reso testimonianza alla massima che dice:
“Una palla di neve in faccia ha segnato spesso
l’inizio perfetto di un’ amicizia duratura”.
Tutto ciò premesso, anch’io mi sono talora lasciato tentare da altri, più trasgressivi passatempi; ad esempio quello di scavare delle buche nella neve lungo le stradine interne del paese, vere e proprie trappole di cui si mimetizzava la presenza con rametti secchi ricoperti a regola d’arte; echeggiavano poi le più chiassose risate quando un malcapitato, del tutto ignaro, ne calpestava una cadendovi dentro; c’erano precise regole per evitare ogni genere di rischio e, soprattutto, per fare in modo che la vittima di turno non fosse un adulto o, addirittura. uno dei nostri genitori: ma ciò, sia pure raramente, accadeva: e allora, come si può immaginare, …erano dolori per tutti!
All’epoca la maggior parte di noi, compreso me, non possedeva uno slittino o, come si direbbe oggi, un bob e perciò spesso ne chiedevamo uno in prestito ai pochi che ne disponevano, usandolo a turno; una volta, invece, non ho esitato a seguire il compianto e caro Nicolino (D’Andrea) che si era impadronito di una grossa slitta utilizzata dagli zii per il trasporto del legname. Era dotata di manubrio e di sci orientabili, proprio come un moderno mezzo motorizzato e fu durante quella sortita che, per così dire, “il diavolo ci mise la coda”; trovandomi infatti ad essergli seduto dietro, l’amico Nicolino non riuscì a frenare in tempo con le apposite leve e finimmo giù da un terrapieno, semisepolti da quel pericoloso…giocattolo.
Nessun danno particolare, grazie a Dio, tranne un lieve stordimento seguito dal timore angoscioso, per fortuna immotivato, di aver danneggiato quella slitta, quanto mai robusta ma troppo grande e pesante per dei bambini.
A questo punto, sia pure con molta serenità, non posso fare a meno di ricordare uno dei più frequenti e fastidiosi inconvenienti cui, inevitabilmente, si poteva andare incontro in quegli anni remoti e in quel clima così rigido; del resto e giustamente si dice:
“Chi ama la neve, non può aver paura del freddo!”.
Escludo così, per ovvie ragioni. le diverse e talora più serie altre affezioni: ad esempio i cosiddetti “geloni” che in gergo medico prendono il nome di “eritema pernio”, o il “fenomeno di Raynaud” con le gravi malattie di cui talora era il sintomo premonitore: oltre tutto, correrei il rischio di creare maggiore confusione con il disturbo innocente di cui sto per parlare.
Si trattava di un quadro che interessava le estremità, specie le mani, caratterizzato da prolungato dolore in crescendo parossistico e accompagnato, inizialmente, da variazioni di colore sulle dita di tipo livido-cianotico: abbastanza simile, perciò, al vasospasmo arteriolare; si immergevano stoicamente le mani nella neve per far cessare prima il dolore da vasocostrizione, cosa che ne accentuava per un breve periodo l’intensità, ma che poi, bruscamente, concedeva il sollievo di un intenso e duraturo calore.
Così tutti esclamavano:
“M’ sò sfucatɘ le mianɘ”
(Mi sono sfogate le mani!)
Ripensandoci, mi aveva sempre lasciato perplesso un altro aspetto: molti dei bambini che ne soffrivano, infatti, sembravano impazienti di pagare questo penoso tributo al freddo, in modo da poter riprendere al più presto i loro passatempi; in altri termini, ”il gioco, valeva bene la candela” e così, recuperato un minimo di benessere tutti, a volte come in coro, ripetevano quella strana esclamazione.
Non era certamente una banale “eruzione da freddo” e, personalmente, non ne ho mai sofferto, ma tuttora non mi spiego se e quanto potesse avermi protetto il semplicissimo rimedio preventivo che la mamma mi faceva, usare sulle mani, la glicerina; ad essere sincero, per tanto tempo non avevo neppure compreso, il significato reale di quell’esclamazione: ora sono convinto che fosse un grido di gioia.
Avviandomi alla conclusione, è stata grande la mia commozione anche per le parole di un altro aforisma che pure, fino ad ora, non avevo mai letto:
“Se vuoi parlare della neve,
comincia dalle risate dei bambini;
è ciò che, inconsapevolmente, ho cercato di fare ed è forse la loro magia che ha accompagnato, ancora una volta, il mio ritorno ideale nel nostro “piccolo mondo antico”: quello, davvero indimenticabile, di Capracotta.
Aldo Trotta