Sul muretto di San Giovanni (agosto 1983). Foto: Cesare Di Bucci
Qualche settimana fa ho scritto un pensiero dedicato alla vecchiaia e alla “sfida esistenziale” da affrontare per poterla vivere dignitosamente; neanche a farlo apposta, alcuni giorni più tardi ho avuto occasione di ascoltare una canzone di Claudio Baglioni intitolata “I vecchi” che, imperdonabilmente, non conoscevo e che mi ha davvero impressionato.
Ne ho letto perciò, con molta attenzione il testo che, sebbene risalga a circa 40 anni or sono (1983), mi è parso, in larga misura, drammaticamente attuale; ho avuto, così, il timore di essere stato troppo ottimista augurandomi persino che la vecchiaia potesse essere considerata, come dovrebbe essere, “una benedizione”; in effetti questo traguardo sembra ancora abbastanza lontano:
“I vecchi soli come i pali della luce
e dover vivere fino alla morte: che fatica…
Se fossimo arrivati a questo punto, vorrebbe proprio dire che:
“la vecchiaia non è più un’età della vita
ma solo il tempo della sua perdita”:
un tragico errore secondo l’insegnamento di papa Francesco, che ce lo ha ricordato nel libro intitolato “La lunga vita”.
I vecchi senza più figli
e questi figli che non chiamano mai…
I vecchi senza una carezza…
Queste malinconiche riflessioni mi hanno fatto pensare alla moderna e diffusa consuetudine di relegare i vecchi nelle cosiddette “case di riposo”, soluzione che talora, realmente o in apparenza, sono gli stessi interessati a preferire: talora come inconscia reazione al deserto affettivo, se non proprio all’’egoismo che li circonda.
“I vecchi che non li vuole nessuno
i vecchi da buttare via…
In quelle strutture assistenziali, forse la maggioranza, lavorano donne e uomini non solo generosi, ma anche attenti e preparati sul piano umano e professionale: sono infatti gli episodi di cronaca più negativi a fare sempre notizia!”; dispiace comunque riconoscere che un allontanamento da casa degli anziani nasconde spesso un preoccupante affievolimento dei valori della famiglia.
A tale proposito mi ha parimenti colpito, nei mesi scorsi, un editoriale pubblicato negli anni della pandemia, durante i quali è stata introdotta una serie di divieti e di restrizioni, specie in materia di visite nelle strutture assistenziali; secondo gli autori, hanno prevalso le ostilità e le proteste da parte di coloro che maggiormente si disinteressavano dei propri congiunti: davvero come se, piuttosto che dare prova di ravvedimento, cercassero solo di mascherare la loro abituale, colpevole negligenza.
Da vecchio medico, so bene che l’allungamento della vita media ha comportato e comporta una percentuale assai elevata di inabilità assoluta per gli anziani, ma sono inoppugnabili le argomentazioni dei sociologi che ne dimostrano il loro prezioso, multiforme contributo a beneficio della nostra, travagliata società.
In ogni caso è indiscutibile che non bisogna, in assoluto, perdere di vista l’obbiettivo di restituire alla vecchiaia la dignità che merita, cercando anzi di valorizzarne le innumerevoli potenzialità; nessuno me ne voglia, ora, se sembro fare un passo indietro perché riaffiora in me la tentazione della nostalgia per il passato: non sono tra coloro che lo rimpiangono per partito preso sostenendo, come si suol dire, che “si stava meglio quando…si stava peggio!”.
Il mio scopo è solo di sottolineare con forza, ancora una volta, quanto fosse virtuoso e denso di insegnamenti l’esempio degli anziani di Capracotta, specie di quelli vissuti in periodi molto remoti e in un ambiente così difficile non solo dal punto di vista climatico; un altro verso della canzone, infatti, riassume benissimo il dolore da sofferenza osteoarticolare dell’età avanzata e, a maggior ragione, dopo anni di lavoro usurante:
“Le ossa piene di rumori…”.
Mi piace pure ricordare le due più frequenti esclamazioni contro la vecchiaia di cui la prima, certamente più stizzita, diceva:
“ Vəcchiaia cana!” (vecchiaia “cagna”!),
un insulto di quasi dantesca ispirazione che si riferiva proprio alla riduzione della vista o dell’udito cui fa cenno lo stesso Baglioni:
“I vecchi mezzi ciechi…
I vecchi mezzi sordi…”.
La seconda invece, un autentico scongiuro in attesa dell’“elisir di lunga vita”, faceva esclamare
“Sié ‘ccisa la vɘcchiaia!” (sia “uccisa” la vecchiaia!).
Restando in tema di saggezza, nel linguaggio dialettale esisteva solo il “tu”, anche se rivolto a personaggi importanti; solo ai “vecchi” veniva riservato l’appellativo di “səgnuria” (vostra signoria); nulla di più vicino all’esortazione biblica che anche l’amico don Antonio di Lorenzo citava in uno splendido editoriale:
“Dinanzi a una testa bianca, alzati e onora
la persona del vecchio” (Lev. 19,31)
e tutto ciò la dice lunga sul patrimonio di civiltà e di umanità che corriamo il rischio di sperperare.
Ora, ripensando ai più inquietanti temi della canzone, faccio nuovamente appello all’ottimismo della speranza che non dovrebbe mai abbandonarci, sebbene sembri così difficile mantenerlo, anche da parte di noi cristiani; bisogna quindi fare di tutto affinché, nonostante i segnali negativi, continuino a migliorare di molto le prospettive di recupero della vecchiaia sul piano culturale, prima ancora che morale.
È proprio ciò che mi auguro a beneficio di tutti ma, in particolare dei carissimi anziani di Capracotta che ora, in gran parte e loro malgrado, vivono sparpagliati nel mondo; intanto, sia pure intimorito dalla mia stessa iniziativa, proverei a mitigare in qualche modo lo sconforto che trapela dai primi versi del brano cui mi sono ispirato:
“I vecchi sulle panchine dei giardini
succhiano fili d’aria a un vento di ricordi”.
Mi sforzo, infatti, di interpretarli come desiderio di un vento nuovo, fatto di ricordi e di speranze insieme, che ci riporti gli stessi “fili d’aria” che respiravano quei vecchi sedendo all’aperto uno accanto all’altro
“I vecchi un po’ contadini
che nel cielo sperano e temono il cielo;
chi della mia fascia di età non ricorda i loro gruppi nei tanti, suggestivi angoli del paese? Spesso sembravano intenti a seguire con lo sguardo le nuvole, ma sicuramente nessuno si sentiva solo come…“un palo della luce”: non avevano certamente necessità di uno “psicologo!”.
Concludendo, mi tornano in mente gli ultimi, più distensivi versi della canzone di Baglioni che pure, mi perdoni il grande Claudio, sono costretto un po’ a modificare:
“Ma i vecchi… i vecchi…
se avessi un’auto da caricarne tanti
mi piacerebbe un giorno portarli al mare (*)
e prendermeli in braccio tutti quanti…
Chi mi conosce, infatti, sa bene che non riuscirei proprio ad accompagnarli al mare (*); da inguaribile montanaro, infatti, tanto più ora che sono anch’io così vecchio, li prenderei in braccio tutti quanti, ma solo per ri-portarli a.…Capracotta” e poi sedere con loro su quelle panchine.
Aldo Trotta