Come ho già raccontato, tra i tanti inconvenienti della mia condizione attuale c’è anche qualcosa che, al contrario, apprezzo particolarmente: ad esempio quella di avere modo e tempo per riandare con la memoria alle persone e agli eventi che hanno fatto da sfondo, per così dire, agli anni giovanili che ho vissuto a Capracotta.
Da bambino, una delle citazioni più ricorrenti che mi capitava di ascoltare era “ORTO IANIRO” e Ianiro era il cognome di mia zia Lucia, che aveva sposato un fratello di mio padre, lo zio Romeo; per qualche tempo avevo creduto che fosse un orto appartenente alla sua famiglia di origine perché, sebbene il paese si trovi a più di 1400 m. sul livello del mare, nel passato c’erano diversi piccoli terreni coltivati, a ridosso delle abitazioni.
Accanto alla nostra casa, per esempio, ce n’era uno molto ben curato dai nostri vicini e generalmente, sebbene possa sembrare incredibile in un clima così rigido, se ne ricavavano utilissimi prodotti gastronomici; ora, per contrasto, sorprende moltissimo che la maggior parte di essi sia stata trasformata in aiuole per i fiori che pure, erroneamente, si pensava non potessero crescere in alta montagna.
La verità era che allora nessuno avrebbe potuto dedicarsi alle piante ornamentali né, tanto meno, al giardinaggio; è pur vero che adesso il tenore di vita è di gran lunga migliorato rispetto al dopoguerra ma è altrettanto vero, purtroppo, che la popolazione residente si è ridotta moltissimo e, con essa, il numero delle case abitate.
Era bastato poi che fossi più grandicello per capire il significato e l’importanza del cosiddetto “Orto Ianiro”; così denominato da tempo immemorabile, in origine era uno tra i più estesi feudi ducali del territorio di Capracotta i cui terreni, divenuti nel tempo un insieme di tante piccole proprietà, erano storicamente destinati all’agricoltura.
E’ comprensibile che tanti anni fa fosse particolarmente adatto l’appellativo di “Orto”, dalla parola sannitica “Hurz”, per la fertilità di quei campi che dipendeva da una serie di importanti fattori: ad esempio l’altitudine inferiore rispetto al paese e soprattutto la particolare esposizione solare di quell’area collocata, come tutti sanno, quasi alle pendici del “Colle San Nicola”.
Non ne sono certo, ma erano forse ottimali anche le sue risorse idriche, a cominciare dalle precipitazioni nevose della vicina, montagna una delle più alte nella cintura di Capracotta; non va inoltre dimenticata l’antica sorgente della cosiddetta “Fonte Fredda” da cui fino agli anni trenta, prima che venisse utilizzata quella del fiume “Verrino”, dipendeva l’intero approvvigionamento di acqua per il paese.
Unica nota dolente era la distanza dall’abitato di quella località, specie considerando che allora non esisteva la moderna strada verso Agnone e quindi che fosse raggiungibile solo a piedi o a cavallo; si percorrevano sentieri scoscesi seguendo un percorso che, indicativamente, iniziava dopo il ponte nei pressi del serbatoio comunale e che svoltava poi a destra verso la Fonte Fredda e il suo abbeveratoio. Proseguendo poi lungo il sentiero, si incontrava la Croce votiva in ferro battuto (foto in basso) che, nel maggio 1925 mio nonno paterno Carmine aveva fatto collocare e tuttora visibile, anche a occhio nudo, dalle finestre della nostra casa; infine, con un percorso ancora lungo ma non molto disagevole, si raggiungeva la località ”Orto Ianiro” in cui, appunto, si coltivavano ortaggi e cereali: che integravano, s’intende, i proventi della storica attività di famiglia, quella di artigiani muratori.
Per inciso, tanti anni fa era spesso preferibile utilizzare una specie di scorciatoia che passava dietro al Cimitero: il cui tragitto era comunque abbastanza impegnativo e talora, con la pioggia, anche molto fangoso.
Alla gestione delle attività agricole contribuivano un po’ tutti gli adulti secondo le capacità e le possibilità di ciascuno, ma era inevitabile il ricorso stagionale a diversi salariati: ad esempio i mietitori (mɘtteturɘ) o i mulattieri per il trasporto dei covoni di grano (manuocchiɘ) o degli altri carichi; così, forse perché ogni bella esperienza rimane impressa nella memoria, mi sembra di rivedere anche adesso la distesa di spighe al sole oppure le grosse patate (patanɘ) allineate accanto alle zolle di terra o, infine, le meravigliose lenticchie (micculɘ) ancora nei loro baccelli.
Potrà apparire incredibile ma, ripensandoci, sono davvero convinto della sacralità di quelle provviste che si riusciva a conservare per quasi tutto l’anno senza disporre, naturalmente, di alcun frigorifero; era quanto mai efficiente per le patate, ad esempio, una spaziosa cella oscura ricavata dalla roccia dei sotterranei di casa , chiamata appunto “patanaro”.
Accompagnavo spesso la zia Michela, vedova di un altro fratello di papà, Vincenzo, quando portava da mangiare ai lavoratori in campagna ed era un miracolo secondo me, come ho già raccontato, che riuscisse a tenere in equilibrio sulla testa un pesante canestro di vimini pieno di cibo e bevande: per di più chiacchierando con me e rispondendo alle mie infinite domande; mi insegnava che una delle attività più impegnative e faticose, cui peraltro teneva particolarmente, era quella dei bovari (ualanɘ) che aravano i terreni, sempre in grande sintonia con i loro robusti e pazienti animali, i buoi.
Anche a me piaceva moltissimo osservare il movimento cadenzato dell’aratro che sollevava le zolle di terra, rovesciandole poi a formare le perfette linee del maggese (maiésɘ) ed era impossibile non rammentare la famosa poesia di Carducci:
“T’amo, o pio bove; e mite un sentimento
di vigore e di pace al cor m’infondi”;
avrei la curiosità di sottoporre questi versi ai ragazzi di oggi, ma ci sarebbe da scommettere che non hanno mai assistito all’aratura di un campo come si faceva allora. A maggior ragione, perciò, non capirebbero le parole, pur così attuali nel loro messaggio “green” , che dicono:
“…e del grave occhio glauco entro l’austera
dolcezza si rispecchia ampio e quieto
il divino del pian silenzio verde”
C’è stata una sola occasione negli anni ’80 in cui, grazie a un moderno fuoristrada, sono riuscito a condurre all’Orto Ianiro alcuni miei cari, ora purtroppo scomparsi: mio padre e mia madre già molto anziani, mia cugina Cecilia e la cara nipote Lina; sapevo infatti che papà, in particolare, desiderava moltissimo rivedere quei luoghi e soprattutto verificare una cosa importantissima per lui e la sua storia personale.
Quei terreni erano letteralmente disseminati di costruzioni in pietra a secco dalla forma di un “trullo” che impropriamente venivano chiamati “pagliai”, ma che in realtà fungevano da deposito per gli attrezzi agricoli o da rifugio in caso di intemperie; nel nostro, certamente uno dei più grandi, mio padre aveva addirittura trascorso alcuni giorni con dei compaesani per sfuggire al rastrellamento degli uomini, nel 1943, durante la guerra.
Ad essere sincero papà dubitava molto che si potesse raggiungere in auto quella zona impervia e per lui fu l’ultima occasione di poterlo fare, ma lo vidi poi molto commosso e felice; io invece, almeno fino a qualche anno fa, ho avuto modo di tornarci più volte e sempre sostando in Preghiera accanto alla Croce del nonno, ma lo scenario era del tutto cambiato: in larga misura, purtroppo, i pascoli avevano già sostituito i terreni coltivati.
Nell’ultima occasione infine, in cui sono riuscito ad arrivarci a piedi insieme a mio cognato Giovanni, è stato grande il mio dispiacere perché del glorioso pagliaio (foto in alto), che aveva resistito per tanti decenni, non rimaneva che un mucchio di macerie già parzialmente invaso dai rovi; per non rattristarmi maggiormente, ho sempre voluto credere che siano stati eventi atmosferici e naturali a farlo crollare, ma quel giorno è stato come se un po’ della vita fosse rimasta all’…”ORTO IANIRO”.
Aldo Trotta