Evacuati del Polesine si dirigono verso i centri d’accoglienza
Trascorrendo tanto tempo in casa, è inevitabile che mi fermi ad ascoltare molte notizie dalla televisione, cui si aggiungono spesso quelle trasmesse dalla radio: a cominciare dal mattino presto, quando mi rado la barba in modo tradizionale; così, in questi giorni non sono certo passate inosservate le immagini, quanto mai drammatiche, dell’alluvione che ha interessato la regione Emilia-Romagna: specie il territorio di quest’ultima da cui provenivano i miei antenati materni prima che i nonni, Aldo e Guglielma, si trasferissero stabilmente nella vicina provincia di Ferrara.
“Nulla di nuovo sotto il sole”, recita un antico detto e il mio pensiero e il mio ricordo sono tornati a una, altrettanto devastante inondazione, quella avvenuta in Emilia-Romagna e Veneto nel 1951; furono allora colpite in modo particolare le province di Rovigo e di Ferrara e in una pagina di cronaca era scritto testualmente:
“Il 14 novembre, dopo settimane di piogge incessanti, il Po ha rotto gli argini e sul Polesine, un territorio che qualcuno definiva un angolo d’Africa a pochi chilometri da Bologna e da Venezia, si è abbattuta quella che passerà alla storia come l’alluvione per antonomasia”
“…quei 100 mila ettari di terra sott’acqua e quei 200 mila sfollati sono entrati nell’immaginario collettivo e hanno provocato un’ondata di emozioni paragonabile soltanto a quanto era successo in occasione del terremoto di Messina”.
Accadde purtroppo che, anche quando non si parlava ancora di “emergenza climatica” e di “riscaldamento globale”, infuriassero le più feroci polemiche e va tenuto presente che l’Italia aveva da poco superato la tragedia del conflitto mondiale; sui giornali si leggeva, infatti che:
“per molti l’alluvione era stata provocata dall’inclemenza della natura e dalle piogge eccezionali, per altri la responsabilità dipendeva dall’inerzia con cui il Governo aveva affrontato i problemi dei lavori pubblici e su cui ricadeva l’obbligo di riparare i danni e rendere impossibile il ripetersi di tali sciagure periodiche”.
Ma… non voglio certo parlare di queste polemiche ricorrenti: preferisco sottolineare che anche allora prevalse la generosità e l’abnegazione di tante persone, pur in assenza di moderni organismi come quello della “Protezione Civile”; a titolo di esempio, dalla sola catena spicciola di raccolta fondi, si ricavò un miliardo e trecentocinquanta milioni di vecchie lire, somma che ora fa sorridere, ma che allora era molto cospicua.
A proposito, mi piace raccontare un singolare episodio di cui sono stato protagonista in quel periodo, a soli otto anni; anche la scuola elementare di Capracotta, infatti, partecipò alla gara di solidarietà indetta dalla Croce Rossa e anch’io, naturalmente, offrii il contributo di una modesta somma ricevuta, allo scopo, dalla nonna: quanto mai angosciata per le notizie provenienti dalla sua amata terra di origine.
Trascorsi alcuni mesi, arrivò a casa un pacchetto postale indirizzato proprio a me, che aprii con molta curiosità: conteneva una splendida macchinetta fotografica perché il mio nominativo era stato estratto a sorte tra le migliaia di ragazzi che avevano contribuito all’iniziativa; inutile dire che ho custodito molto gelosamente quel dono inatteso pur aggiungendo, solo per la cronaca, che non sono mai più stato così fortunato.
Tornando ora al mio racconto, è stato inevitabile che ricordassi anche i famosi versi di Giovanni Pascoli:
“Romagna solatìa, dolce paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese
re della strada, re della foresta”.
Così mi sono pure rammentato di una vecchia storia che mi raccontava da bambino la nonna, realmente vissuta da un suo diretto antenato (credo proprio il nonno paterno); questi, nei primi decenni del 1800, tornava a casa con il suo calesse a Massa Lombarda (RA) dopo aver acquistato, tra l’altro, un ettolitro di vino durante una fiera. Lungo il tragitto ebbe la sventura di imbattersi nei malviventi della cosiddetta “banda del Passatore”, al secolo il famoso Stefano Pelloni. Gli fecero il dispetto di togliere il tappo della botte di cui si disperse tutto il contenuto; poco più avanti, essendosi accorto del danno e mentre inveiva ad alta voce contro quei fuorilegge, gli rivolse la parola un elegante e garbato cavaliere che si dimostrò rattristato dell’accaduto: gli fece poi l’incredibile sorpresa, prima di allontanarsi al galoppo, di risarcirlo gettando sul calesse un sacchetto di monete. Si trattava di Stefano Pelloni in persona cui premeva forse di mantenere, atteggiandosi a novello “Robin Hood” , la sua a fama di “brigante cortese”; era in effetti il famoso bandito nato a Bagnacavallo (RA) nel 1824, che poi trovò la morte giovanissimo a Russi (RA) nel 1851, durante un conflitto a fuoco con i gendarmi dello stato pontificio. Il celebre nomignolo di Passatore” gli era stato dato perché il padre faceva di mestiere il “traghettatore” da una sponda all’altra del fiume “Lamone” che, tra l’altro, attraversa la città di Faenza ed è straripato, come diversi altri corsi d’acqua, in questo sfortunato periodo.
Proseguendo nel mio racconto, colgo l’occasione dell’argomento per rendere omaggio a un indimenticabile personaggio, vero “capracottese di adozione” come lo erano mia nonna e mia madre: il caro e compianto dottor “Giuseppe Turchetti”, per tanti anni veterinario comunale di Capracotta.
Originario proprio di Russi, era certamente l’unico “romagnolo” allora residente nel nostro paese e senza dubbio lasciava molto perplessi il suo aspetto apparentemente rude e trasandato ma, al contrario, si trattava di un valoroso e stimato professionista: che pure, chi l’avrebbe mai detto?, soffriva di grande nostalgia per la sua terra e le sue radici; a tale proposito, io sono stato testimone di un’occasione in cui, come era solito fare, si fermò a salutare mia madre dopo essere sceso dalla sua rumorosa motocicletta. Entrambi erano, per così dire, immigrati a Capracotta e non parlavano il nostro dialetto, ma non tardò ad ammettere che si commuoveva moltissimo conversando con mia madre: per il semplice fatto che, proprio come lui, aveva mantenuto immutato l’accento romagnolo.
A conclusione del mio racconto e tornando al terribile evento alluvionale di questi giorni, con i lutti e le sofferenze che ha provocato, dovremmo augurarci davvero che non se ne aggiungano degli altri, anche peggiori: sarebbe tuttavia indispensabile che non dimenticassimo, magari già fra qualche settimana, questo ennesimo avvertimento della natura; intanto, con il pensiero ancora rivolto alle mie lontane “radici romagnole”, mi affido all’ottimismo della speranza e ripeto le parole di Giovanni Pascoli; di vero cuore, infatti, faccio voti affinché quella fantastica regione possa ancora meritarle:
“ROMAGNA SOLATIA, DOLCE PAESE”.
Aldo Trotta