Un veterinario di altri tempi a Capracotta: il dottor Giuseppe Turchetti

Una Mondial 125 MA del 1952

La cronaca di questi giorni, con la gravissima alluvione che ha colpito la regione Emilia-Romagna, mi ha fatto pensare al compianto dottor Giuseppe Turchetti che per molti anni, nel passato remoto, è stato titolare della condotta veterinaria  di Capracotta. Di origini romagnole come mia mia madre perché nato a Russi (RA), merita a pieno titolo di essere annoverato tra i cosiddetti “capracottesi di adozione”; ma io ho avuto l’impressione che nel tempo, del tutto involontariamente, se ne sia un po’ perduta la memoria.

Perciò, nel piacere di far rivivere personaggi che hanno fatto parte della mia storia infantile e giovanile, sono lieto di dedicargli un racconto e confesso di essere emozionato ricordando che, come mia madre’, era stato anche lui un immigrato atipico: aveva percorso infatti, negli anni a ridosso dell’ultimo conflitto mondiale, la rotta Nord-Sud dell’Italia e non viceversa come avveniva di consueto.

Il dottor Turchetti, conosciuto in paese con l’appellativo di “don Peppe”, era un professionista molto intelligente e preparato ma che dava, purtroppo, l’impressione di una persona trasandata; chi lo conosceva bene, tuttavia, ne attribuiva la ragione prevalente al fatto che era sempre rimasto celibe trascurando molto, nel tempo, la sua immagine: sebbene si fosse integrato benissimo a Capracotta, accolto da famiglie dignitose che lo ospitavano quasi anticipando quella modalità che ora prende il nome di “cohousing” (coabitazione).

Contribuiva certamente a peggiorarne l’aspetto esteriore la stessa attività perché si può immaginare come fosse allora il suo ambiente di lavoro, in genere una stalla, specie nel difficile periodo della ricostruzione post-bellica e nella scarsità delle risorse: senza nulla togliere alla dignitosa compostezza dei cittadini, anche quelli più poveri e di campagna, come mia madre ha sempre testimoniato esercitando la professione di ostetrica.

Era frequente incontrare il dottor Turchetti a cavallo oppure, in anni più recenti, a bordo della sua storica motocicletta “Mondial” di cui era un autentico conoscitore; io pure,  sempre appassionato di motori, ignoravo che quello storico marchio ora scomparso avesse collezionato ben 10 titoli sportivi internazionali. L’esemplare che apparteneva al nostro don Peppe disponeva di un accessorio esclusivo: un grosso tascapane militare, sempre legato al sellino posteriore, che costituiva la sua “borsa da lavoro”;  per inciso, mi ha sempre incuriosito l’etimologia della parola “veterinario”: che deriva forse dal latino veterinarius” e cioè da “veterina”, «bestia da tiro o da soma»: ma il termine rimane tuttora abbastanza controverso.

Non sono in grado di raccontare qualcosa di specifico circa la l’attività professionale del dottor Turchetti che comunque, come dicevo, godeva di fama molto lusinghiera; posso solo confermare che veniva spesso chiamato a prestare la sua opera abbastanza lontano dal territorio di Capracotta: al punto che talora non faceva ritorno a casa per giorni fermandosi a dormire e a mangiare anche nelle più sperdute case coloniche, le nostre cosiddette “masserie”. 

In ogni caso, per unanime ammissione il caro don Peppe era considerato un vero benefattore, specie delle persone più umili: che ha sempre aiutato, spesso in modo del tutto gratuito, a salvaguardare l’insostituibile patrimonio rappresentato da qualche capo di bestiame.

Il mio pensiero corre allora ai tanti, simpatici aneddoti della sua vita spicciola, per molti versi anche un po’ disordinata e avventurosa: ad esempio di quando, mentre percorreva a piedi un sentiero di campagna, incontrò un impresario boschivo che, non conoscendolo e vedendolo nel suo sdrucito abito di fustagno, davvero somigliante a un carbonaio, gli chiese se volesse lavorare a giornata per lui; risulta che gli rispondesse, arrabbiandosi non poco:

“Sei uno sciocco!  Non ti hanno mai insegnato

che…l’abito non fa il monaco?”

Tutti lo conoscevano, inoltre, come un grande “mangiatore” e sono numerose le occasioni in cui ci si meravigliava della sua voracità, suggerita anche dalla corporatura molto robusta;  una volta che, in campagna, aveva chiesto per colazione ben 5 o 6 uova al tegamino, finì per scrostarne il fondo smaltato e per ingoiarne bellamente  i frammenti senza …battere ciglio.

Un giorno in cui si trovava a viaggiare in treno, la cosiddetta “colomba bianca” della ferrovia privata Agnone – Pescolanciano,  un agente voleva multarlo per averlo sorpreso con una scatola contenente ben 20 uova (già lessate);  era consentito infatti, in quel periodo postbellico, avere con sé del cibo in piccola quantità ed esclusivamente per uso personale. Don Peppe lo pregò di ripassare dopo alcuni minuti e, di lì a poco, fu in grado di mostrare allo zelante controllore la scatola piena solo dei gusci dopo aver divorato tutte le uova, una dopo l’altra, tra lo sconcerto e l’ironia dei passeggeri che aveva intorno.

In ogni caso, al di là delle apparenze, il profilo e l’attività del dottor Turchetti sono certamente stati un punto di partenza per altri eccellenti medici veterinari a Capracotta di cui alcuni, purtroppo, sono ora scomparsi; di quelli, grazie a Dio tuttora vivi e vegeti, ho il timore che mi sfugga qualche nome, specie tra più giovani e ne cito perciò soltanto uno, il caro amico Agostino Potena che, tra l’altro, è stato titolare di una cattedra di chirurgia veterinaria presso l’Università di Napoli. Di lui rammento un episodio in cui, da ragazzo, lo vidi impegnato a soccorrere in emergenza un cavallo da soma che a me pareva quasi moribondo: utilizzò uno strumento che si chiama “trequarti”, una specie di grosso punteruolo che ho spesso ricordato quando io stesso ho dovuto tante volte impiegarlo in medicina umana per drenare versamenti peritoneali.

Ricordando inoltre il caro don Peppe, ho cercato un po’ di documentarmi sulla storia della medicina veterinaria e mi sono imbattuto in un antico dipinto che non conoscevo, di Sylvain Grateyrolle e intitolato “La visita del veterinario”; non avrei mai pensato che potesse suscitare tanta emozione, fino al punto da farmelo accostare a un altro suggestivo quadro, intitolato “Pulsazioni e palpiti”, del pittore Teofilo Patini: che, non certo casualmente, è stato scelto come logo per l’Ordine provinciale dei Medici Chirurghi dell’Aquila cui ho tuttora l’onore di appartenere.

In fondo, il tema delle due opere è analogo ma non si potrebbe certo paragonare la trepidante attesa di chi assiste alla visita di una mucca, a quella di chi è angosciato per la malattia di un congiunto; la drammaticità del primo quadro, si può spiegare solo considerando l’estrema importanza economica, in quegli anni remoti, del bestiame: da cui dipendeva spesso la stessa sopravvivenza delle persone.

Così, a conclusione del mio racconto, si rafforza il convincimento che il dottor Giuseppe Turchetti non possa e non debba essere dimenticato; la sua figura merita infatti, secondo me, di essere annoverata tra quelle dei benefattori di Capracotta. Sarei davvero contento, infine, di mostrare una sua foto di cui, purtroppo, non dispongo e me ne dispiace tanto; sono certo, tuttavia, che nel mio ricordo rimarrà indelebile l’immagine che preferisco, quella che lo ritrae a bordo della sua storica e rumorosa “Mondial” di color argento.

Grazie a nome di tutti, caro don Peppe.

Aldo Trotta