Tanto più che nei mesi estivi le condizioni di mia moglie Anna erano ulteriormente peggiorate, sarei certamente rimasto accanto a lei e mi sarebbe stato impossibile raggiungere Capracotta in occasione delle celebrazioni per l’Otto Settembre; al contrario, è purtroppo scomparsa circa un mese prima e ho perciò deciso di recarmici, sia pure alternando momenti di grande tristezza ad altri di più sereno raccoglimento.
Ripensandoci, mi piacerebbe tanto fare chiarezza nei miei sentimenti in un momento tuttora assai difficile ma, come ho spesso ricordato, non sono un “bravo psicologo”; così preferisco cambiare argomento chiedendomi come mai si possa passare dall’enorme affollamento di persone nei tre giorni della ricorrenza festiva allo spopolamento estremo del paese: riducendosi soprattutto, di anno in anno, anche il numero di coloro che vi risiedono stabilmente.
Mi rendo conto di quanto sia inquietante questo quesito cui neppure gli “addetti ai lavori”, nelle opportune sedi politiche, riescono a dare risposte adeguate; è apprezzabile tuttavia, a mio parere, che vadano moltiplicandosi le iniziative di studio sul destino delle aree interne e soprattutto di quelle montane. Speriamo anzi che si raggiungano risultati apprezzabili in questo ambito, ma il percorso sembra ancora molto lungo e tortuoso; così, a mo’ di semplice introduzione, riprendo alcune espressioni del sindaco di Capracotta, l’amico Candido Paglione:
Credo sia giunto il momento di uscire da una visione stereotipata, quasi museale della montagna…
La montagna è una “fabbrica” di beni di prima necessità: pensiamo all’aria pura, ma soprattutto all’acqua potabile e alle energie rinnovabili…
Sono gli altri territori che hanno bisogno della montagna e non viceversa…
La montagna è una risorsa, un “giacimento” di energie e beni essenziali…non territori che, come spugne, assorbono risorse economiche…
Lo spopolamento si combatte solo assicurando i servizi basilari…
E, infine:
“Si rimane in montagna se la gente non ha paura di restare…”
Non vi è dubbio che questi temi siano di grande complessità nel contesto dei mutati aspetti antropologici e ambientali che investono particolarmente le ormai poche persone che, appunto, “non hanno paura di restare”; a proposito di paura, mi ha particolarmente colpito quella istintiva suscitata dall’inconsueta presenza di un “orso” anche a Capracotta. Ci riflettevo stamani su una bella immagine della cosiddetta “Fonte dell’Ursɘ” nella faggeta di monte Capraro, e poi ripensando all’altra, meno nota località, denominata “Iacciɘ dell’Ursɘ”: letteralmente il “giaciglio dell’Orso”, che si trova nel territorio di monte Campo.
La toponomastica di questi antichi luoghi non dovrebbe lasciare alcun dubbio sulla loro origine e, a rigor di logica, sembra davvero esagerata una reazione così allarmata; oltre tutto, secondo il giudizio degli esperti, è ormai ragionevolmente prevedibile che “uomini sempre più isolati e confinati si trovino ad osservare, sempre più stupefatti, degli animali liberi” e vengono subito in mente le deleterie conseguenze della recente pandemia; si tratta invece di un fenomeno che affonda le sue radici molto indietro nel tempo e che certamente ha subìto un incremento esponenziale, a cominciare dal dopoguerra.
Del resto è radicalmente cambiato il rapporto degli uomini, persino in zone rurali e di montagna, anche nei confronti degli animali domestici di cui, tra l’altro, è sempre più esiguo il numero; si sta verificando, in altri termini, un progressivo allontanamento gli uni dagli altri e ne ho avuto prova anche durante le storiche processioni dell’Otto Settembre a Capracotta, con i tanti cavalli bardati a festa. E’ molto apprezzabile che, nonostante le difficoltà, si cerchi di mantenere e di rinverdire questa splendida tradizione, ma è parso evidente l’imbarazzo di diverse persone, specie tra le più giovani. ormai fuori dalla consuetudine di vita con gli animali; non si può certo tornare “ai vecchi tempi” ma sta di fatto che, per centinaia di anni, la stessa sopravvivenza dei capracottesi è stata garantita proprio da loro: non soltanto i cavalli ma soprattutto, come è noto, le capre e le pecore.
A tale proposito, mi ha molto colpito un articolo del “Corriere della Sera” (24-9-23) che iniziava con il ricordo della “Transumanza”, riconosciuta nel 2019 patrimonio culturale immateriale dall’UNESCO; oltre che al suo significato in tema di cambiamenti climatici, l’inserto era dedicato a uno spettacolo teatrale intitolato “BUCOLICA” (dal greco boukólos), che significa “pastore”). Questo termine, che aveva dato il nome alla prima opera di Virgilio in cui sono raccolti 10 carmi caratterizzati da un’ambientazione agricola e pastorale, era in fondo il pretesto del giornalista per lanciare una vera e propria provocazione; tra gli interpreti della commedia, infatti, figura un gruppo di persone provenienti dalle isole Canarie cui si deve l’unica elaborazione al mondo di un sistema di comunicazione intra-specie, quindi uomo-animale, fondato sui “fischi”: divenuti così, molto sorprendentemente, un articolato linguaggio con un suo specifico vocabolario composto da oltre 400 fonemi.
Davvero straordinario, direi, ma forse non tanto originale se ricordiamo i messaggi che i nostri antichi pastori riuscivano a scambiarsi in modo del tutto naturale, sfruttando un intero repertorio di “fischi” : per di più senza l’ausilio di un moderno telefono cellulare e, ancor più brillantemente, rivolgendosi ai più diversi animali, specie i preziosi cani che custodivano le loro greggi.
Non sembri perciò così utopistico il mio desiderio di un ambiente più idilliaco per la nostra montagna, certamente diverso e lontano dalla nostra contemporaneità, ma in grado di smussarne alcuni assurdi contrasti e forse anche di ostacolarne i conflitti veri e propri; lo potremmo davvero sperare, se solo riuscissimo a recuperare una dimensione di maggiore armonia tra di noi e con il Creato: proprio come quella vagheggiata dal poeta Virgilio e definita, appunto, “bucolica”; ne sarebbe corollario indispensabile anche un più equilibrato rapporto con gli animali di altra specie ma, riterrei, anche respingendo le posizioni più esasperate e radicali dei cosiddetti “animalisti”.
A conclusione di queste riflessioni mi piace tornare un attimo, solo per celia, agli “incontri ravvicinati” con un orso bruno a Capracotta che mi sorprende, lo ripeto, abbiano suscitato tanta apprensione; considerando anzi i gravi danni inferti nel tempo dalle aree rurali e montane con il loro progressivo spopolamento, la ricomparsa inattesa di questo selvatico potrebbe persino rappresentare un buon segnale per il futuro; dispiace tanto, infatti, che della convivenza uomo-animale si enfatizzino solo gli aspetti negativi per la nostra specie e mi angoscia il timore che si arrivi presto a distruggere irreversibilmente il delicato equilibrio, già molto precario su molti fronti, dell’intero nostro pianeta.
Aldo Trotta