Capracotta, 1914. La sartoria di Loreto Borrelli
La leggenda vuole che Capracotta sia divenuta paese dei sarti perché i fanciulli nelle giornate di bufera solevano passare il tempo alla finestra contemplando le stalattiti di ghiaccio che si formavano alle estremità dei corpi sporgenti: nelle loro menti queste divenivano gladi imbattibili temprati dalla furia del vento. Il ricordo ancestrale del corpo appuntito, sopito nella memoria, riemergeva inconsapevolmente nell’adolescenza quando finita la scuola dell’obbligo bisognava imparare il mestiere. Il gladio si ricomponeva riducendosi in forme minime, divenendo l’agognato ago simbolo dell’arte nobile del sarto. Solo questa leggenda riesce a spiegare come un paese così piccolo sia riuscito a formare nell’ultimo secolo migliaia di sarti che praticano la loro arte in diversi angoli della terra.
L’apice della scuola capracottese si ebbe con ii maestri Ciro Giuliano e Gaetano Terreri, firme internazionali della moda sartoriale maschile dagli anni ’20 agli inizi degli anni ’70, i quali seppero definire con nettezza i caratteri propri di questa scuola.
Sulla scia di questi ambasciatori di stile, Capracotta ha dato negli anni ’50 il massimo contributo di nuove leve che sono andate a rinverdire i grandi atelier della capitale e del mondo imponendosi per rigore di esecuzione e pulizia di stile: caratteri questi connaturati all’indole di uomini schivi, cresciuti nelle privazioni imposte da un clima ostile di una terra avara.
I nomi che “contano” nel panorama internazionale sono passati per le premurose mani di capracottesi che, “chirurghi” delle fattezze, hanno piegato l’informe tessuto alle esigenze della figura umana limandone le imperfezioni e trasfondendo nell’abito il carattere di colui o colei che lo avrebbe indossato: contemplazione ed esecuzione, passando per la fantasia, come vuole la leggenda del fanciullo.
Giuseppe Di Rienzo
Fonte: S. Di Rienzo (a cura di D. Di Nucci), Il cappotto di quarta mano. Ricordi di un’infanzia felice, De Luca Editori d’Arte, Roma, 2017