La «vecchia casa» di Capracotta di Aldo Trotta
Nel tentativo di sfuggire allo sconforto, tanto più deprimente dopo essermi allontanato dalla vita attiva e che la stessa età avanzata tendeva ad esasperare, mi sono rifugiato nella memoria delle mie radici e del mio passato: illudendomi così di combattere quella che ho sempre considerato la mia peggiore insidia spirituale, la “nostalgia”.
Sto rendendomi conto, peraltro, non avendone ben compreso le dinamiche, di aver sempre erroneamente attribuito a questo sentimento il significato di “rimpianto per un luogo”: naturalmente rappresentato, per me, dal meraviglioso paese di montagna in cui sono nato, Capracotta; ed è stato questo il motivo per cui ho riportato, in un libro di piccoli racconti, la frase di Edmond Jabès:
“bisogna aver intrapreso molte strade per accorgersi, alla
fine, che in nessun momento si è lasciata la propria”,
che temo appunto di aver un po’ frainteso.
Come ho sempre detto, non mi ha mai particolarmente attirato lo studio dei percorsi mentali e, di conseguenza, quello della psicologia cui solo negli ultimi anni mi sono avvicinato grazie ad alcuni testi letterari e scientifici; mi sono persino sottoposto, per curiosità, al test ideato da una studiosa americana, Kristyne Batcho, denominato “Nostalgia Inventory”, il cui risultato conferma in assoluto che sono un inguaribile “malato di nostalgia”; delle sue due componenti, il “nostos”e l’“algos”, mi sentirei di dire che prevale in me la seconda, considerata in genere meno negativa e più propulsiva, ma stento comunque a credere che il mio cruccio dipenda dal rimpianto per il passato piuttosto che da quello per il mio paese di origine: e quindi che a nulla, o quasi, servirebbe potervi fare fisicamente ritorno.
Mi ha fatto molto riflettere in questi giorni l’ultimo libro del professor Alessandro D’Avenia (“RESISTI, CUORE”) dedicato alla storia di Ulisse nell’Odissea, specie quando mi sono imbattuto in uno dei primi capitoli intitolato “Nostalgia di futuro” che, nell’opera di Omero, sarebbe il sentimento dominante: un’apparente contraddizione in termini per cui suonano come assurde anche le parole di Albert Camus nella sua opera “Il mito di Sisifo”:
“Il pensiero di un uomo è innanzitutto la sua nostalgia
che è molto più che un sentimento regressivo e rivolto al passato; è la lotta che ogni uomo conduce per creare un mondo che ancora non esiste, ma a cui si sente chiamato a ‘tornare’, perché lo percepisce come qualcosa di perduto, che gli manca”.
Fa certo sorridere l’idea che a 80 anni si possa soffrire di “nostalgia del futuro”, ma le argomentazioni di chi lo sostiene sembrano molto convincenti; ho provato perciò a rileggere la mia esistenza alla luce di quell’eterno paradigma della vita racchiuso nell’Odissea: con Ulisse inteso non solo come personaggio dell’epopea greca che si allontana dalla sua patria per “desiderio dell’ignoto”, ma anche come simbolo dei comuni mortali: che, assai meno eroicamente, abbandonano la loro terra per “imprescindibili necessità esistenziali”.
In altre parole la nostalgia del futuro non rappresenta più o non rappresenta solo una perdita ma, “l’inquietudine del non ancora” che induce a non accontentarsi delle cose così come sono o come il passato ce le ha consegnate”; è ragionevole pensare che nell’animo della maggior parte delle persone come me o come i tanti concittadini emigrati da Capracotta, questi due tipi di anelito siano sempre stati associati: da una parte la vocazione o la passione e dall’altra l’impellente necessità.
In ogni caso è inevitabile che gli uomini si scontrino con le numerose e spesso impegnative prove di cui è disseminata la vita, i tanti minacciosi “naufragi” del cui paradossale beneficio, il più delle volte neppure si accorgono: a dimostrazione della saggezza di un detto popolare che dice:
“Non tutti i mali vengono per nuocere”.
Così anch’io, nel mio piccolo, non mi sono accontentato del microcosmo di Capracotta, sia pure così “fiabesco”; me ne sono infatti allontanato, con immenso dispiacere, a 16 anni per proseguire gli studi e non sono state irrilevanti le difficoltà incontrate e, grazie a Dio, superate.
Dalla mia umilissima storia come da quella di Ulisse che pure, in apparenza sembra combattere da solo, emerge il ricordo commovente e la gratitudine nei confronti delle persone che hanno ispirato il mio percorso e le mie decisioni: a riprova del fatto che
“senza maestri di vita non si risponde
a nessun destino e a nessuna chiamata”.
Sarei felice, a questo punto, se riuscissi a disegnare il profilo di coloro che giustamente considero le mie “guide spirituali” di cui c’è un lungo elenco: dopo i genitori e la nonna materna Guglielma, la mia cara consorte Anna scomparsa da pochi mesi e davvero complementare a me per la sua mentalità pratica e dinamica; poi, ad esempio, la maestra della scuola elementare e diversi insegnanti, alcuni Sacerdoti e molti altri altrettanto valorosi.
Così, considerandole l’elogio migliore per loro,, mi piace ripetere le parole del professor D’Avenia:
“Questi uomini e donne sono stati miei maestri perché sapevano ciò che io ignoravo e me l’hanno donato. Da tutti ho imparato che vivere equivale a donare ciò che si è, che conoscere è lavorare un pezzetto di mondo perché dia frutto, che amare è curare i dettagli, che essere generosi è generare; tutto quello che avevano lo donavano come donassero sé stessi”.
Ora, dal mio ideale e velleitario confronto con Ulisse, affiorano le ragioni per cui mi sforzo di raccogliere e di conservare gelosamente le diverse cose che riconducono a quei “maestri”: non certo e non solo quelle materiali, ma soprattutto quelle simboliche perché…
“fatte d’amore e di dolore, quelle che non buttiamo mai, che resistono ai traslochi e creano legami invisibili tra tutte le case che abbiamo abitato, edificandone una che alla fine vedremo essere l’unica a restare in piedi”.
A proposito, ho la netta impressione che per me, ad essere rimasta in piedi sia già solo la vecchia casa di Capracotta un cui sono nato, “la mia Itaca”, il mio “santuario domestico”; ma, tornando a quei tesori dell’anima, suonerebbe come irriverente se provassi a confidarne i misteri e preferisco, perciò, che restino tali.
Mi dispiace purtroppo che, attualmente, sia grande il rischio di confondere e di storpiare il concetto autentico di nostalgia: come accade, ad esempio, in diversi musei che espongono vecchi telefoni, mangiadischi o altri cimeli del genere, del tutto anonimi ed inespressivi.
Intanto, da vecchio montanaro con tanta, tremenda paura per il mare, non mi resta che proseguire la navigazione: meno burrascosa forse, dopo essermi convinto del paradosso per cui è l’armonia di quegli oggetti simbolici e di quelle care persone ad alimentare la mia “nostalgia di futuro”; oltre tutto, alla mia venerabile fascia di età, non sembra dispiacermi che essa vada lentamente trasformandosi in “nostalgia per il soprannaturale”.
Aldo Trotta