C’era una volta (ma c’è ancora…) un piccolo paese di montagna dal nome davvero strano: Capracotta. I bambini che vi abitavano, indifferenti dinanzi a questa stranezza, erano, piuttosto, concentrati sul loro vivere quotidiano. Da piccolissimi bevevano il latte della madre, poi venivano le fette di pane inzuppate di latte di capra o di mucca, i giochi pomeridiani per la strada, il tepore della loro casa e i sogni della notte. Così, un giorno dopo l’altro.
Rompevano questo tran tran alcuni eventi che accendevano la loro fantasia: la neve, per esempio.
Prima che gli uomini stravolgessero la natura, nevicava…nevicava tanto per tutto l’inverno. Metri di neve coprivano i portoni e arrivavano ai primi piani. Come uscire? I bimbi aspettavano che i genitori spalassero la neve che aveva ostruito il portone e poi, con le mani gonfie dal freddo, scolpissero con le pale gli scalini per arrivare all’altezza della nuova strada di neve dove poter chiedere notizie a qualche passante.
La neve per i piccoli rappresentava la felicità assoluta. Cominciavano le gare: a chi faceva il pupazzo più grande e meglio ‘vestito’, a chi ‘sciava’ meglio con la ‘petrella’, sgabello che viveva vicino al camino, pronto ad accogliere chi se ne appropriava per primo per rovesciarlo a zampe all’aria e scivolare sulla neve.
Vogliamo parlare del camino? Il camino era il cuore dei servizi della casa: la riscaldava (si fa per dire; la casa era sempre gelida), serviva per cucinare la pasta e altro dentro a ‘r cuttur’ (paiolo) appeso sul fuoco. I carboni, quando erano allegri, vivaci, riuscivano anche ad arrostire qualche pezzo di carne o qualche salsiccia. Quando erano affaticati e un po’ moscetti, si prestavano comunque a riscaldare ‘r monaco’ (scaldino racchiuso in una leggera struttura in legno) che si metteva sotto le coperte per scaldare un po’ il letto. Infine, quando la cenere era ancora calda, ci chiedevano di avere pietà, e di non esagerare con le richieste. Ma non c’era verso. Il loro ciclo quotidiano non era ancora finito: dovevano ancora cuocere le patate.
A Capracotta, in quei tempi, c’erano tanti bimbi. Un’ipotesi: con tutto quel freddo e non potendo lavorare, i papà e le mamme contribuivano a far alzare l’indice delle nascite…
I bimbi andavano a scuola, non so se volentieri o no. Certo è che quando si avvicinava il Natale, erano letteralmente elettrizzati per le poesiole dedicate a Gesù bambino e le letterine, cariche di buoni propositi, indirizzate ai genitori. Ricordo l’albero di Natale, ma non mi pare che fosse conosciuto e popolare, fra i bimbi di quei tempi, Babbo Natale.
Le letterine dovevano essere scritte bene, e spesso venivano coinvolte, benevolmente consenzienti, le maestre.
Ma il piccolo paese aveva in serbo, tutti gli anni, una nota allegra caratteristica dei nostri luoghi: gli zampognari, con i loro suoni natalizi e un po’ malinconici. Andavano di casa in casa, sempre in due, suonavano per lo più Tu scendi dalle stelle e aspettavano una ricompensa. Non sempre si trattava di soldi; il più delle volte di prodotti locali come il formaggio, la salsiccia, qualche dolce.
Un impegno significativo era quello per ‘l’albero di Natale’. In quegli anni (quando la mia mamma era ancora piccola) si era inconsapevolmente ambientalisti: gli abeti, di cui era ricca la nostra zona, non si dovevano tagliare, perché ci sarebbero voluti tanti anni per farli ricrescere. E allora si ricorreva…all’agrifoglio. Una pianta cosi bella e decorata naturalmente con bacche rosse che si poteva lasciare lì, a simboleggiare il Natale. Ma si sa che i bambini hanno fantasia da vendere. Cosi le foglie spinose e dentate venivano caricate di mele ‘di montagna’ piccolissime, di qualche mandarino, di caramelle, di torroncini. E i genitori completavano l’opera, appoggiando alla base dell’ ‘albero’ salsicce, caciocavalli, qualche altro dolcetto e nastri per le trecce delle bimbe, bretelle per i maschietti.
Il clou del Natale era la nascita di Gesù bambino. Si andava in Chiesa presto, per prendere il posto. Le mamme trascinavano i figli piccoli, assonnati ma curiosi, un po’ di cibarie da mangiare, ritualmente, in chiesa e il cosiddetto ‘mandrciegl’, (un tovagliolo che conteneva rigorosamente sette cose: un mandarino, una noce, una castagna, una piccola mela, un taralluccio, un ’quaracen’ (ossia un fico secco), un torroncino o una caramella. I giovani facevano tanto rumore, cantavano le canzoni della Chiesa e, a pochi minuti dalla mezzanotte, suonavano le campane e tutti ‘sparavano la Gloria’, come diceva mamma.
I bimbi, come statuine incantate, si rianimavano e volevano mangiare il contenuto del tovagliolo. Per loro e per tutti, quel quadratino di stoffa rappresentava il simbolo della prosperità.
Magìa della sintesi fra sacro e profano!
Pina Monaco