Dal momento che ora i servizi meteorologici diffondono tutte le notizie sul clima, non potevo certo illudermi di trovare molto freddo a Capracotta nel brevissimo periodo che vi ho appena trascorso; ciò nonostante, a fronte dell’immensa gioia di trovarmi a Natale nel paese che mi ha visto nascere, è stato grande il mio disappunto per la completa assenza della neve che da bambini, nei lunghi mesi invernali, rappresentava la nostra migliore compagna di giochi.
Del tutto eccezionalmente poi, mentre riflettevo al cambiamento delle stagioni, ho avuto occasione di passare dall’ingresso della casa in cui abitavo da piccolo e che ora appartiene alla famiglia di mio cugino Ezio; il che mi ha fatto tornare in mente un episodio abbastanza inquietante, avvenuto moltissimo tempo fa e fortunatamente senza conseguenze.
Come spesso accadeva a Capracotta, le giornate invernali parevano iniziare senza particolari avvisaglie di burrasca ma, in pochi minuti, poteva scatenarsi una terribile tormenta di neve; così una volta capitò che mio padre Ottaviano, per un impegno correlato al suo lavoro, fosse partito presto al mattino utilizzando un furgoncino diretto a Castel di Sangro; diverse ragioni lo costrinsero a trattenersi più del previsto senza che nessuno lo potesse informare delle avverse condizioni del tempo e così, sulla strada del ritorno e quando era già buio, quel piccolo automezzo fu costretto ad arrestarsi per la neve: senza neppure poter tornare indietro.
Mancavano pochissimi chilometri al paese, ma papà, insieme a due uomini che erano con lui, non ebbe alternativa se non quella di incamminarsi a piedi; corse comunque un grandissimo rischio e a me è parso di rivivere quella trepidante attesa: tanto più senza poter minimamente comunicare, cosa che adesso è davvero inconcepibile.
Fatto sta che papà, unitamente ai suoi compagni di avventura, a notte inoltrata riuscì finalmente a rientrare a casa, paonazzo per il freddo e quasi assiderato ma, grazie a Dio, salvo; al mattino successivo mi colpirono le parole della nonna Guglielma che, ancora molto spaventata e rivolgendosi a me, disse:
“In vita mia non ho mai visto un uomo così ricoperto
dalla galaverna com’era il tuo papà ieri sera”;
riteneva, infatti, che io conoscessi questo strano termine ed invece non lo avevo mai sentito prima.
Me ne fornì, allora, una sommaria spiegazione che purtroppo, da bambino, non credo di aver ben compreso; in parole semplici il fenomeno della galaverna consiste nel passaggio da vapore acqueo a ghiaccio e avviene non solo sul terreno, ma anche sugli alberi, sui tetti delle case, sulle auto e sulle persone: ad esempio sui baffi, le ciglia o le sopracciglia su cui può appunto gelificare anche il vapore acqueo prodotto dalla respirazione.
Non vi è sicurezza circa l’origine del nome “galaverna”, forse composto da “caligo” o nebbia (da cala di origine germanica) e dal latino “hibernus” o inverno; ma si tratta, come ho appreso più tardi, di un termine molto utilizzato in Emilia-Romagna, regione appunto da cui proveniva mia nonna. E’ verosimile infatti, ma non ne sono certo, che nel caso di papà si trattasse di un evento un po’ diverso con formazione di ghiaccio in presenza di temperature molto basse e di un’alta umidità relativa dell’aria: fenomeno per cui viene comunque utilizzato lo stesso nome di “galaverna”; quest’ultima si distingue infine dalla “brina” perché, tipicamente, questa si forma per cristallizzazione del vapore sulle superfici gelide per il forte irraggiamento durante le notti serene.
Molto suggestivi erano pure gli arabeschi di ghiaccio che allora si formavano sui vetri delle nostre vecchie case e che la nonna mi aveva indicato per spiegarmi cos’è la galaverna; mi è tornato in mente, così, anche lo strano sistema per guardare fuori dalla finestra durante le tormente di neve; si ricorreva infatti alla famosa “pupattèlla di sale”e cioè a un piccolo sacchetto di lino, abitualmente riempito con un po’ di zucchero a mo’ di ciuccetto per i bambini, in cui si metteva del comune sale da cucina: che, sfregato sui vetri, ne scioglieva rapidamente la patina di ghiaccio disegnando quasi un piccolo “oblò” trasparente.
Nei giorni scorsi, sempre a Capracotta e forse sognando a occhi aperti davanti al camino con tanti altri ricordi, mi sono rammentato anche di un’altra incombenza cui provvedeva papà operando al centro del davanzale delle finestre: in ognuna di esse, infatti, c’era uno strano foro il cui tragitto raggiungeva l’esterno del muro. Serviva semplicemente a drenare il vapore acqueo che d’inverno si condensava sui vetri diventando acqua e purtroppo, nelle stanze non riscaldate, anche ghiaccio che ne ostruiva il lume; era necessario, perciò. un apposito arnese di ferro arroventato che ripristinava la canalizzazione, ma spesso contribuendo a produrre ancor più vapore.
Confesso ora la mia tentazione, sull’onda delle emozioni rivissute a Capracotta, di continuare a scrivere ma rischierei di diventare oltremodo noioso; di un altro solo ricordo mi piace fare confidenza ed è legato a quando, da bambini, facevamo a gara per costruire il più grande e il più simpatico “pupazzo di neve”.
Ora purtroppo, anche volendo, ciò non sarebbe possibile per mancanza di materia prima ma, cercando di resistere alla malinconia, ho voluto rileggere i versi di Jacques Prévert nel brano intitolato “Canzone dell’inverno”:
“Nella notte d’inverno
galoppa un grande uomo bianco
è un omone di neve,
ha una pipa di legno
un omaccione di neve
inseguito dal freddo
arriva in paese
e vedendo la luce
si sente sicuro
in una casetta
entra e non bussa
e per riscaldarsi
si siede sulla stufa arroventata
e d’improvviso ecco che scompare
e rimane solamente la sua pipa
proprio nel mezzo di una pozzanghera
e rimane solamente la sua pipa
e il suo vecchio cappello”.
Fanno certo sorridere queste parole scherzose, ancor più gradevoli nella versione originale del poeta in lingua francese, ma non sarei sincero se dicessi che mi lasciano sereno come avrei desiderato; pur con i debiti scongiuri, infatti, mi fa tanta paura il timore che il progressivo e veloce riscaldamento del pianeta possa renderci tutti “orfani della neve”: persino a Capracotta e sarebbe davvero un assurdo incredibile.
Speriamo non si verifichi mai!
Aldo Trotta