Foto: Saverio Zarrelli (9 gennaio 2019)
Diverse, recenti occasioni mi hanno offerto lo spunto per ripensare al Molise, in particolare all’alto Molise e a Capracotta, paese in cui sono nato e vissuto fino a 16 anni, ma anche ai graziosi comuni limitrofi come Castel del Giudice, Sant’Angelo del Pesco, Pescopennataro, Vastogirardi e San Pietro Avellana; ed è noto che la nostra regione, seconda per le sue piccole dimensioni dopo la Val d’Aosta, è stata resa autonoma dall’Abruzzo a partire dal 1963.
Superfluo sottolinearne il suo progressivo e ingravescente “spopolamento”, specie nelle zone di più alta montagna: può sembrare incredibile, ma a Capracotta si contavano circa 5.000 abitanti all’inizio del secolo scorso e adesso sarebbero meno di 800; cosa ancor più grave, tale fenomeno sembra coinvolgere tutto il territorio regionale, al punto che è stato coniato uno slogan davvero inquietante: “il Molise…non esiste!”.
Già da tempo questo modo di dire mi aveva incuriosito ma, confesso di non averne mai approfondito le ragioni; ma si tratta certamente di una trovata scherzosa attribuita, che io sappia, a un sedicente dottor Gregory Donald Johnson e pubblicata in un sito denominato “Nonciclopedia”:
«Ho studiato a lungo la geografia, la fisica, la fisiognomica e la chimica dell’Italia, e sono giunto alla conclusione che il fatto che nessuno ricordi il capoluogo del Molise, il piatto tipico del Molise, una canzone popolare del Molise o perfino il dialetto di questa regione, si può spiegare così: il Molise non esiste!»
A suggerirmi queste riflessioni è stato l’ospite di una trasmissione televisiva, un giovane dottore in agraria di Castel Del Giudice, che si chiama Carmine Valentino Mosesso; era risultato vincitore di un prestigioso premio della Coldiretti denominato “Oscar Green” per aver salvato dalla scomparsa un’antica varietà di legumi denominati “fagioli della fertilità” o, in modo ancor più curioso, “della levatrice”. Fino a diversi decenni or sono, infatti, un’ostetrica condotta di quel comune, originaria dell’Emilia-Romagna, era solita regalarne un sacchetto augurale alle giovani spose; per associazione di idee tutto ciò mi ha fatto ripensare a una collega di mia madre, proveniente dalla stessa scuola di ostetricia di Ferrara, che l’aveva assistita a Capracotta nel suo primo parto, più di 80 anni fa’.
Non potrei giurare che si trattasse proprio dell’ormai famosa “levatrice” di Castel del Giudice perché potrei confonderla con un’altra, anche lei emiliana e residente nella stessa zona; oltre tutto, in passato, le ostetriche condotte erano spesso chiamate a esercitare anche in un paese limitrofo, “a scavalco” come si diceva. In ogni caso negli anni successivi, ma ero ancora un bambino, ricordo di aver incontrato e conosciuto quella collega della mamma di cui conservo pure un vago ricordo fisionomico; se non vado errato si chiamava, “Lea” (?) e, a giudizio di tutti, meritava di essere considerata un esempio di emancipazione femminile.
Per ragioni di indiscutibile praticità, indossava abitualmente i pantaloni da uomo, allora pressoché inconcepibili per una donna e soprattutto, costretta a muoversi da sola anche di notte, non faceva mistero di portare sempre con sé, per difesa personale, una rivoltella; che io ricordi, inoltre, era una fumatrice accanita e preferiva sigarette straniere di marca: credo le “Turmac”, che una volta aveva inutilmente sperato di poter acquistare a Capracotta.
Davvero difficile immaginare, in quegli anni remoti, un personaggio più moderno e anticonformista, ma nel periodo precedente la seconda guerra mondiale, diverse ostetriche provenienti dall’Emilia-Romagna si erano stabilmente trasferite nell’alto Molise; da “emigranti atipiche”, seguendo l’inconsueta rotta “Nord- Sud” dell’Italia,non avevano tardato ad apprezzare i valori storici, culturali e di costume di quei dignitosi, ma del tutto sconosciuti centri. Mia madre, ad esempio, ripeteva sempre che non avrebbe mai immaginato di trovare a Capracotta, a fronte del suo proverbiale e freddissimo clima, il grande calore umano dei suoi abitanti: di cui ha sempre elogiato lo spirito di iniziativa e, in modo particolare, quello dimostrato nella ricostruzione del paese dopo il disastro della guerra.
Tornando ora a Carmine Mosesso, sono certo di nutrire per lui tanta simpatia pur non avendo il piacere di conoscerlo personalmente; da quanto ho appreso, si dedica pure a un allevamento di capre che si possono forse considerare appartenenti all’intera comunità di Castel Del Giudice; mi piace infatti ricordare che nel passato remoto, quasi accreditando la storia leggendaria del suo nome, a Capracotta erano tantissime le famiglie che possedevano uno di questi animali: che, incredibile ma vero, si raccoglievano quotidianamente in un solo gregge, affidato a un solo pastore, “r’craparɘ” (il capraio). Del suo lavoro e dei diversi personaggi che lo hanno svolto ha mirabilmente raccontato l’amico Vincenzo Di Nardo; bastava che suonassero il corno passando per le strade e le caprette, come incantate da un pifferaio magico, lo raggiungevano seguendoli ordinatamente al pascolo.
Di quel giovane e prestigioso corregionale di Castel Del Giudice ho avuto anche il piacere di leggere un libro intitolato “La terza geografia” (NEO Edizioni); ne riporto anzi alcune massime che dimostrano la profondità delle sue considerazioni:
«penso che la semplicitàsia nulla più che una complessità risolta e che nel paesaggio ci sia la medicina per vivere in armonia con questo mondo moderno e al tempo stesso antico”
“al tuo paese non esiste luogo che non ti somiglia, non c’è occhio in cielo che non ti abbia visto crescere e cadere. È un poco tua ogni vita, la storia scritta su ogni volto”.
A mio giudizio, esse rappresentano molto bene quel fiabesco scenario capace di evocare in me tanta nostalgia e per cui mi commuovo persino ascoltando la canzone di Edoardo Bennato intitolata “L’isola che non c’è”; colgo anzi l’occasione, nessuno me ne voglia, per dedicarne idealmente le parole a me stesso e all’“isola dei miei sogni”, il Molise (che non c’è ?!):
“Seconda stella a destra
questo è il cammino
e poi dritto, fino al mattino
non ti puoi sbagliare perché,
quella è l’isola che non c’è”
“…e ti prendono in giro
se continui a cercarla
ma non darti per vinto perché
chi ci ha già rinunciato
e ti ride alle spalle
forse è ancora più pazzo di te”
So bene, e dovrei averlo imparato da tempo, che la nostalgia non è il rimpianto per un luogo ma, purtroppo, per un passato irrecuperabile; ciò nonostante, continua a dispiacermi che tanti, anche tra gli amici più cari, mi considerino un “pazzo” innamorato di quei meravigliosi paesi del Molise: in primis, neanche a dirlo, di Capracotta.
Sono davvero un visionario inguaribile che, anche a 80 anni, non si rassegna a “darsi per vinto”.
Aldo Trotta