Aldo Trotta
Come ho spesso ripetuto, mi occorre sempre uno spunto per qualsiasi riflessione e stavolta è stata la santa Messa di domenica scorsa a fornirmene imprevedibilmente uno; è stata celebrata, infatti, la XXXII.a giornata mondiale del malato, in coincidenza con l’anniversario della prima apparizione della Vergine Maria a Lourdes nel 1858 e mi ha colpito particolarmente il brano del Vangelo di San Marco (1,40-45) dedicato alla guarigione di un lebbroso. Ripensavo così alla lebbra come malattia e al fatto che, direi giustamente, non viene più considerata quel grave flagello che è stato sempre ritenuto: sia perché la sua enorme diffusione era più favorita da condizioni igieniche e socio-sanitarie scadenti piuttosto che dalla sua intrinseca contagiosità: ma è comprensibile che tuttora venga considerata un simbolo delle peggiori malattie sofferte nei secoli dal genere umano.
Il Direttore della Clinica Dermatologica dell’Università Federico II di Napoli, professor Pietro Santoianni, affermava che:
«la storia della lebbra come malattia è inscindibile dalla vicenda della lebbra come fatto culturale e sociale. Poche malattie al pari di questa, infatti, sono state oggetto di tanti fraintendimenti, credenze e superstizioni, con conseguenze a volte spettacolari e disastrose sul modo di comprenderla, prevenirla e curarla”;
attualmente la lebbra è endemica in molti paesi tropicali e sub tropicali e i casi registrati nel mondo nel 2021 ammontano ancora a oltre 200.000, di cui più di 100.000 in India e circa 30.000 in Brasile.
Fanno perciò ancora molta impressione le parole del Levitico, nel vecchio testamento:
«…Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro e se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (Lv 13, 45-46).
Esse danno un’idea della trasgressività di Gesù che, 2000 anni fa, si permetteva di parlare con un lebbroso e di toccarlo:
«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato» (Mc 1, 40-42).
Si stenta a credere che di una patologia conosciuta da tempo immemorabile, descritta in Cina nel II° secolo a.C. da Feng Zhen Shi e poi anche a Roma da Plinio il vecchio, solo nel 1868 il grande Hansen Gerhard Henrik Armauer (1841-1912), direttore del Lebbrosario di Bergen in Norvegia, sia riuscito a identificarne l’agente eziologico, il “Mycobacterium Leprae”: denominato perciò “bacillo di Hansen”; ho provato, così, a ripercorrere mentalmente, alcuni tra i più esaltanti capitoli di storia della medicina e, in particolare, quelli che descrivono le tante battaglie più o meno vittoriose contro gli agenti infettivi; tutti noi abbiamo vissuto la recente esperienza della SARS Cov 2 (più nota come COVID) dal cui impatto, come paradossale e positivo effetto collaterale, sono persino derivate delle lusinghiere prospettive per la cura dei tumori; è l’eterna battaglia dell’uomo per il progresso sanitario ma, nulla togliendo ai pur grandissimi meriti della ricerca, sembra talora che ci si trovi di fronte a un circolo vizioso: nel senso che, a una patologia dichiarata scomparsa in assoluto, sembra sostituirsi un’altra, ancora sconosciuta, che fa la sua prima comparsa.
Basti pensare, per esempio, al “Vaiolo” da una parte e dall’altra alla “Sindrome da immunodeficienza acquisita” (HIV) e così, pur essendo sconfortante, bisogna rassegnarsi a credere che ci sono dei limiti insormontabili alle capacità umane: ma… non posso certo affrontare temi esistenziali di questa difficoltà e portata.
L’occasione attuale mi ha fatto piuttosto ripensare a una meravigliosa conferenza ascoltata da studente quando, negli anni ’60, ci fece visita in facoltà un personaggio famoso nel mondo per la sua lunghissima battaglia ideologica e pratica contro la lebbra; la teneva l’avvocato Raoul Follereau, accompagnato dalla moglie Madeleine, che durante la sua vita percorse 32 volte il giro del pianeta visitando e sostenendo con mille incredibili iniziative, i lebbrosari di 94 paesi nel mondo.
Fu la prima occasione, lo ricordo bene, in cui sentii dire che questa malattia non sarebbe mai stata vinta fino a quando milioni di persone non fossero state sottratte alla povertà, allo sfruttamento e alle guerre e cioè fino a quando non fossero debellate anche le “altre lebbre” dell’umanità come l’indifferenza, l’egoismo, e l’ingiustizia; siamo purtroppo molto lontani da un simile traguardo e forse ci rifiutiamo di prenderne atto nonostante le terribili cronache attuali: una ragione in più, io credo, per un approfondito esame di coscienza individuale e collettivo.
Già nel V° secolo a.C. Ippocrate aveva formulato una “ricetta” estremamente efficace e universale per cui «il tocco, e la parola» possono davvero guarire; sono passati più di due millenni, eppure gli insegnamenti del padre della medicina sembrano del tutto dimenticati; paradossalmente, i grandissimi progressi in campo scientifico e tecnologico hanno fornito ai medici di oggi strumenti potentissimi dal punto di vista diagnostico, terapeutico e farmacologico, rendendo tuttavia il rapporto tra medico e paziente sempre più superficiale e frettoloso.
Perciò, sia pure con grande difficoltà, si sta giustamente riscoprendo il valore, non taumaturgico s’intende, del contatto fisico da cui in medicina può derivare una maggiore capacità di persuasione e di empatia; qualcuno anzi sostiene che è già tempo di ridimensionare il ricorso ai nostri display e a tutti i dispositivi elettronici e telematici per recuperare il valore profondo, anche terapeutico, del “tatto”: a prescindere dalla sua intramontabile necessità semeiologica per la stessa visita medica.
In definitiva è ad una rinnovata umanizzazione della sanità cui siamo chiamati piuttosto che ad una sua, ancor più esasperata tecnicizzazione e mi piace concludere i pensieri di un vecchio medico come me ispirandomi alla giornata mondiale del malato; ancora una volta, infatti, ho rivissuto la gioia immensa di quando appresi che la facoltà in cui mi sono formato, quella dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, avrebbe conferito la laurea in Medicina “onoris causa” alla santa madre Teresa di Calcutta. Se fossi stato io a scriverne le motivazioni, non avrei esitato a definirla il più bell’esempio, dopo quello di Gesù, di “touching doctor”, di “medico che accarezza, “toccandolo”, l’uomo sofferente prima ancora di provare a curarlo.
Al termine, infine, di queste mie riflessioni e ritornando alla testimonianza cristiana di Raoul Follereau, mi piace chiudere con la disarmante utopia del suo pensiero per i giovani cui aveva dedicato il suo testamento spirituale:
«All’opera miei giovani amici!
Mentre i Grandi preparano il suicidio dell’umanità
o si divertono a giocare alle bocce
nella stratosfera, la sconvolgente moltitudine
dei Poveri si sforza di sopravvivere amandosi.
È verso di loro che bisogna andare.
È per loro che bisogna combattere.
Sono loro che dobbiamo amare.
Cercate uno scopo alla vostra vita?
Mancano nel mondo tre milioni di medici:
diventate medici.
Più di un miliardo di esseri umani non sanno
né leggere né scrivere:
diventate insegnanti.
Due uomini su tre non mangiano a sazietà:
diventate seminatori e fate sorgere dalle terre
incolte raccolti che li sazieranno».
Aldo Trotta