So bene che è improponibile il confronto tra le esperienze e le emozioni della mia vita attuale rispetto a quelle del passato: gli anni remoti cioè, trascorsi da bambino e poi da ragazzo nel favoloso scenario di Capracotta; qualcuno penserà che riaffiori subito il cruccio della mia “nostalgia” e soprattutto l’inguaribile tendenza a rimpiangere il mio “piccolo mondo antico”. Spero proprio che non sia così questa volta, sia pure confessando che me ne assale spesso la tentazione; ho cercato, tra l’altro, di paragonare l’atmosfera pasquale che si respirava a Capracotta in quei lontanissimi anni rispetto a quella che caratterizzava l’altra grande ricorrenza dell’anno, il santo Natale; e non mi riferisco ai grandi cambiamenti socio-culturali intervenuti negli ultimi decenni, cui ha certamente contribuito il fenomeno della secolarizzazione nella società, ma alle differenze esistenti da tempo nel modo di vivere le due ricorrenze; basta ricordare, del resto, l’antico proverbio che recita: “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”.
Limitandomi ora alla prossima festività di Pasqua, uno dei miei ricordi più significativi riguarda la preparazione e poi l’allestimento, il Giovedì Santo, dei cosiddetti “Sepolcri”, un termine che andrebbe doverosamente sostituito con quello di “Altari della Reposizione”: si tratta in effetti, come è noto, di Tabernacoli speciali in attesa della Resurrezione di Gesù; di essi mi piace ricordare soprattutto l’intenso lavoro per allestirli e, in particolare, la suggestiva decorazione con vasi contenenti germogli di grano cresciuti al buio.
È intuitivo il riferimento al brano evangelico di Giovanni (12;20-33) che recita:
“In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”, e a me dispiace molto che da tanti anni, nella maggior parte delle Chiese, siano pressoché scomparse quelle suggestive piantine di color giallo-oro: troppo lungo e laborioso dedicarsi, già alcuni mesi prima, alla loro delicata e paziente coltivazione senza contare il fatto che quasi nessuno dispone ora dei chicchi di grano.
In questi giorni è stata la partecipazione al rito della “Via Crucis” che mi ha fatto riflettere, in particolare, al cosiddetto “triduo pasquale” di tanti anni fa a Capracotta; sebbene possa apparire incredibile, c’era talora la neve specie negli anni in cui, come ora, cadeva precocemente la prima domenica dopo il plenilunio di primavera. Il freddo, spesso molto pungente, raramente ostacolava lo svolgimento della processione nel Venerdì Santo, ma nella mia memoria rimane impressa l’immagine del manto nero della “Vergine Addolorata” scompigliato dal vento; le avversità del clima sembravano favorire il raccoglimento e l’atmosfera penitenziale così confacenti alla “Settimana Santa”.
Chi è vissuto poi in paese, ricorda come molti momenti della giornata e della stessa vita quotidiana fossero sottolineati dal suono delle campane il cui linguaggio era sempre molto eloquente: si parlava infatti di “campane a festa”, di “campane a morto”, di “campane a martello” e di diversi altri, forse meno noti messaggi; impressionava molto, perciò, il loro silenzio nei giorni precedenti la Pasqua ma non si faceva ricorso al tradizionale “banditore con la tromba”. Rispettando infatti la “legatura delle campane”, a ricordare l’orario delle celebrazioni religiose provvedevano, girando per le strade, diversi gruppi di ragazzi di cui ho fatto parte tante volte anch’io; il segnale del loro passaggio era affidato a strumenti tradizionali caratteristici come le rumorose “raganelle” che, come ricordava il caro e compianto amico Domenico di Nucci, erano composte da:
“una piccola scatola, da un asse e da due ruote dentate che, messe in rotazione dall’asse, facevano vibrare una striscia di legno”;
c’erano, inoltre, le più famose “cuccèrelle”, molto più grandi e pesanti da manovrare, che invece erano composte da:
“una tavola con dei tondini di ferro mobili, a semicerchio, con un’apposita apertura che serviva a tenerla in mano verticalmente e che, ruotandola infine da una parte e dall’altra, produceva un forte e cupo rumore”.
Trascorso così il Sabato Santo, iniziava la spasmodica attesa della Domenica e con essa, durante la santa “Messa di Mezzanotte”, della cosiddetta “Scùrdela”: un momento di grandissima gioia collettiva sottolineato non solo dal fragore assordante di tutti gli strumenti suonati all’unisono, ma soprattutto, dai rintocchi delle “campane a distesa”, finalmente “sciolte”; in questo ricordo della Pasqua di tanti anni fa, il mio commosso pensiero va soprattutto al momento liturgico del “Gloria”, quando cioè il telo bianco che aveva tenuto nascosto la statua di Gesù risorto veniva fatto cadere ai piedi dell’Altare. Non si disponeva di moderne apparecchiature elettriche o motorizzate che potessero dare l’impressione di un prodigio, ma bastava l’umile intervento di due persone, munite di semplicissime, lunghe canne; esse poi restavano a lungo immobili, in ginocchio, nel rumore assordante della “Scùrdela”, consapevoli forse del loro ruolo di “testimoni della Resurrezione”.
Così, sia pure rischiando ancora una volta di essere indicato come un inguaribile “nostalgico”, sono certo che nessuno me ne vorrà se… rimpiango queste belle tradizioni pasquali di Capracotta; e concludo, infine, inviando tanti cari auguri di buona Pasqua agli “Amici di Capracotta” e facendo voti di Pace e Bene per tutti.
Aldo Trotta