Come ho già confidato più volte, mi rasserena molto il ricordo dell’ambiente di Capracotta in cui ho avuto la fortuna di trascorrere la mia infanzia e la mia prima giovinezza: sempre con un pensiero di particolare gratitudine nei confronti di tanti lavoratori, specie quelli che svolgevano peculiari, anche molto umili attività; mi sembra anzi doveroso ricordarli in modo speciale, tanto più che purtroppo il trascorrere degli anni, insieme allo spopolamento e ai cambiamenti socio-culturali, ha fatto scomparire la maggior parte dei mestieri tradizionali, specie quelli artigianali veri e propri.
Mi è parso così di aver un po’ trascurato, sia pure involontariamente, la categoria dei fabbri, certamente una tra le più importanti nell’antica economia di paese, per tutta una serie di ragioni che sarebbe impossibile elencare; basti pensare all’estrema necessità, in quegli anni remoti, del “maniscalco”, (“ferrarɘ”) un fabbro specializzato il cui lavoro prevalente era quello di “ferrare i cavalli”, l’arte cioè della cosiddetta “mascalcìa” di cui non sono davvero un esperto. Sottolineo solo, molto semplicemente, la funzione essenziale di questa attività che consentiva agli animali da soma e da lavoro di camminare su terreni accidentati senza consumare i loro zoccoli; ed è stato per me molto commovente rileggere un racconto sui fabbri di Capracotta del caro e compianto Domenico D’Andrea, nel suo libro intitolato “Sul Filo della Memoria”.
È bastato un attimo per ricordare con lui, ad esempio, “mastro Cianone, mastro Agostino ‘r ‘ferrarɘ, mastro Gaetano Casciero”; di alcuni di loro anzi, sebbene scomparsi tantissimo tempo fa, rimane un’immagine molto nitida nella mia memoria anche perché spesso il loro lavoro si trasformava in un evento spettacolare per noi bambini: meravigliati dell’estrema docilità con cui anche i cavalli più irrequieti e focosi si sottoponevano ai loro trattamenti.
Nessuno me ne vorrà se, comunque, la figura più impressa nella mia mente resta quella di Michele Trotta o, meglio, di “zì Chèle” visto che anch’io lo chiamavo così essendo zio di mio padre Ottaviano; è stato certamente il fondatore di una vera e propria scuola di “Artisti del Ferro” frequentata, tra l’altro, da valentissimi alunni come due suoi figli e diversi altri: il che, tutto sommato, non sorprende ricordando il famoso aforisma attribuito a Leonardo da Vinci che ricorda: “Tristo l’allievo che non supera il maestro”.
Confesso che tuttora, nelle pur rare occasioni in cui mi capita di trovarmi in paese e di passare davanti a quella che era la sua bottega ormai chiusa molti decenni, mi fermo qualche minuto per rivivere una scena indimenticabile; bastava lo sguardo indulgente del caro “zì Chèle”, pur così burbero in apparenza, a invitarmi nella sua oscura bottega per raggiungere, in fondo, un piccolo antro scavato nella roccia: la classica “Fucina”, certamente più piccola ma forse non molto diversa da quella mitologica di Vulcano. Quest’ultima, come è noto, comprende un focolare sormontato da una cappa in cui un cumulo di carbone viene sempre mantenuto in attiva combustione con un getto di aria soffiata da un mantice, in modo da riscaldare il ferro da lavorare a caldo; ma, per descrivere degnamente la figura di “zì Chèle”, non ho trovato di meglio se non le parole testuali di Domenico D’Andrea:
“Mi pare di rivedere il vecchio mastro intento al lavoro, solido, alacre, risoluto, con il grembiule nero davanti e le maniche rimboccate. Cala colpi rapidi e precisi sulla barra di ferro appoggiata sul corno dell’incudine, la gira e la rigira, la torce e la modella a sua volontà. L’eco delle sonore martellate si effonde per le vie dintorno”.
A tale proposito si può facilmente immaginare che ondata di reazioni susciterebbe la molestia di quei rumori oggi che si cerca di contrastare ogni forma di “inquinamento acustico”: tanto più che quelle fragorose martellate iniziavano spesso ancor prima dell’alba, specie nel periodo estivo quando, anche a Capracotta, diventava meno tollerabile il calore estremo della fucina. Pochi conoscevano la vera motivazione di quegli strani orari di lavoro, talora appunto “antelucani”, dello zio Michele che dipendevano dall’estrosità del suo temperamento, da vero “artista” piuttosto che da semplice artigiano; tra le sue doti naturali c’era anche quella di saper cantare benissimo e, che io ricordi, lo faceva spesso ad alta voce.
Ho trovato bellissimo, perciò, il pensiero di Carlo Alberto Salustri (TRILUSSA) le cui parole non sembrano descrivere i gesti di un fabbro, ma quelli di uno “scultore del ferro”:
“Quann’è rosso lo caccia e taia, spezza, l’intorcina, lo storce, je dà la forma che je fa più gioco: e canta co’ tanto sentimento ch’er martello, cor batte su l’incudine, je fa ‘na specie d’accompagnamento”.
Ripensavo anche alla variegata gamma di oggetti che vedevano la luce grazie al prodigio delle sue mani: non solo e non tanto, sebbene fossero in maggioranza, i comuni attrezzi da lavoro come una pala, un’accetta, un rastrello, ma anche dei veri e propri capolavori: per esempio alcune tra le splendide Croci votive di cui è disseminato il territorio di Capracotta o i fantastici accessori per il caminetto; basta ricordare, ad esempio, le cosiddette “purtèllɘ” (“sportelli”) che servivanoa ridurne l’ampiezza della “bocca” e quindiil rischio di avere fumo in casa,o gli “alari” sulla cui sommità si potevano ammirare delle fantastiche decorazioni in ferro, spesso a forma di foglie o di fiori di ogni specie.
Trovandoci ancora, infine, nel periodo delle festività di Pasqua, è inevitabile che il mio pensiero e il mio affettuoso ricordo vadano anche al caratteristico “Ferro per le Pizzèlle” che era una specie di lunga tenaglia con due valve rettangolari per cuocere sulla brace uno dei dolci più tipici di Capracotta, le “pizzèlle” appunto. Chiamate anche non a caso “ferratelle”, avevano la caratteristica di riprodurre nelle cialde di pasta di cui erano composte, la decorazione o l’iscrizione che il fabbro aveva impresso stabilmente nel metallo.
Michele Trotta era certamente uno dei più apprezzati e famosi artefici di questi “ferri” e ricordo che traspariva molta soddisfazione dal volto di mia madre Cesarina quando molti, essendo io ancora bambino, leggevano sulle “pizzelle” il suo cognome da coniugata, “C. Trotta”; era molto orgogliosa, infatti, di quell’imprevisto regalo di nozze ricevuto qualche anno prima dal caro “zì Chèle”.
Aldo Trotta