Enrico Paglione (Capracotta 1935 – L’Aquila 2018)
Negli ultimi mesi ho avuto occasione di riscoprire diversi oggetti un po’dimenticati che avevo lasciato all’Aquila, città ove risiedevo con la mia famiglia e da cui mi ero dovuto allontanare circa 10 anni or sono; tra di essi mi ha particolarmente incuriosito una tavola di travertino lavorata che, con altri pregevoli manufatti come un mortaio, mi era stata regalata da un concittadino di Capracotta ormai scomparso.
Si chiamava Enrico Paglione che, dopo aver vissuto diversi anni da emigrato in Venezuela, era poi rientrato in Italia fissando la sua residenza proprio all’Aquila; così, onorandone la memoria, ho voluto esporre la sua opera nella mia attuale abitazione proprio come un’immagine sacra.
Si tratta infatti una riproduzione del famoso “trigramma” di San Bernardino da Siena le cui spoglie riposano nell’omonima basilica del capoluogo abruzzese; come è noto, esso raffigura il Cristo come un sole a 12 raggi su cui sono impresse le lettere “IHS”, ovvero le prime tre lettere del nome di Gesù in lingua greca (ΙΗΣΟΥΣ). Viene simboleggiata, così, la sua luce diffusa dagli Apostoli (i 12 raggi), quindi dalla Chiesa ed è innegabile la grande potenza espressiva dell’immagine.
Il mio pensiero è perciò tornato all’antico, un po’ trascurato mestiere del caro Enrico e cioè quello dello “scalpellino” in genere considerato equivalente a quello di “brecciaiolo” (in dialetto capracottese “brɘcciaiuòlɘ”); di quest’ultimo profilo, senza dubbio prevalente dal punto di vista numerico, ci siamo forse fatti un’idea abbastanza dispregiativa e fuorviante, quasi assimilandone l’attività a quella dello “spaccapietre”. Nulla di più sbagliato perché, come ho già avuto modo di ribadire per altri mestieri tradizionali, è spesso difficile tenere distinta la componente artigianale da quella artistica vera e propria; si tratta frequentemente, cioè, di una duplice valenza professionale nella stessa persona e va ricordato che anche tra le “Corporazioni di Arti e Mestieri” a Firenze, tra l’XI° e il XIII° secolo, era ingiustamente sottovalutata la categoria degli Scalpellini; molti dei quali, se da un lato non potevano esimersi dallo svolgimento di lavori modesti e faticosi come appunto quello dello “spaccapietre”, dall’altro e come veri scultori erano in grado di realizzare splendidi bassorilievi per le chiese e i palazzi, ottime rifiniture interne ed esterne per le case e tanto altro ancora.
Al momento attuale i moderni mezzi meccanici hanno fatto scomparire il profilo del brecciaiolo mentre in genere si assiste a una significativa ripresa di attività per gli scalpellini: specie nei centri storicamente più importanti tra i quali va annoverata la cittadina di Sant’Ippolito, nelle Marche in provincia di Pesaro-Urbino; leggevo anzi che le sue cave di arenaria, già note in epoca romana, erano la fonte della pietra lavorata da famosi artigiani. Il primo di cui si hanno notizie è un certo Antonetto da Sant’ Ippolito, conosciuto come il “lapicida” e cioè “brecciaiolo”, che già nel 1300 lavorava nel palazzo dei papi di Avignone.
Non mi risulta, invece, che sia altrettanto conosciuta l’importanza e la diffusione di questa attività nel Molise e tanto meno che sia stata svolta in passato, più che dignitosamente, anche a Capracotta; perciò, cercando di documentarmi, ho appreso dell’esistenza di una grande tradizione in questo settore a Oratino, un paese in provincia di Campobasso i cui “scalpellini”, come quelli appartenenti alla famiglia “Chiocchio”, sono diventati famosi ben oltre i confini regionali e hanno contribuito a realizzare opere molto importanti.
Tra le più note, la realizzazione della Basilica di Castelpetroso, in provincia di Isernia che, a ripensarci, può davvero essere considerata un monumento agli “artisti della pietra”; a tale proposito, ricordando con commozione che il matrimonio mio e di Anna fu celebrato in questa magnifica Chiesa nel 1971, sottolineo che i lavori della sua costruzione, iniziati nel 1890, furono conclusi solo nel 1975. Essi avevano impegnato intere generazioni di scalpellini molisani per modellare, uno per uno, i blocchi di pietra che ne ricoprono le maestose facciate; inoltre, cosa davvero encomiabile, mi risulta che in genere la loro attività fosse stata prestata a titolo gratuito e per devozione nei confronti della Vergine Maria Addolorata: apparsa nel 1888 a due contadine del luogo.
Come sempre ora, tornando all’amato territorio dell’alto Molise, non posso certo dimenticare che uno dei centri più famosi per i suoi scalpellini è Pescopennataro, un simpatico, paese vicino a Capracotta; è addossato a rocce antichissime che gli fanno da sfondo, per cui sembra quasi naturale che questo genere di attività abbia potuto svilupparsi e mantenersi nel tempo. Anche a Pescopennataro, infatti, esiste tuttora un “Museo della pietra” (dedicato a Chiara Marinelli) ed è molto significativo che, già nel 1700, vi fosse stata istituita una vera e propria “Scuola artistica per Scalpellini”: cui forse, per semplice osmosi di cultura e di tradizioni, si sono ispirate le famiglie di scalpellini (e/o di “brɘcciaiuòlɘ”) a Capracotta.
Oltre quella dei “Paglione”, con lo storico capostipite Olindo che ho avuto il piacere di conoscere, ricordo quella dei “Beniamino” e dei “Carnevale”, ma nessuno me ne vorrà per ogni mia involontaria omissione.
A conclusione del mio racconto mi torna in mente, con un certo disappunto, la provocazione di molti che deridono il nostro territorio sostenendo che: “Il Molise non esiste!”; io penso proprio che non valga la pena di prendersela più di tanto per un’affermazione così sciocca. È certamente vero che la nostra regione ha una superficie molto limitata e soprattutto che è assai preoccupante il fenomeno dello spopolamento, ma nessuno può misconoscerne la sua millenaria, multiforme tradizione e le sue incredibili doti di resilienza; senza contare per di più che, secondo le ricerche storiche del professor Nicola Mastronardi, alla lingua osca delle nostre antiche genti molisane appartiene la parola “Viteliu”:da cui deriverebbe quella latina di “Italia”.
Perciò, naturalmente senza alcuna animosità, mi sembra opportuno controbattere dicendo:
“Chi ha orecchie per intendere… intenda!”
Aldo Trotta