Nella foto, Filippo Mendozzi “La Pizzuta” con i suoi buoi
A volte è sorprendente che un’idea o un pensiero, talora del tutto occasionali, possano ricondurmi a esperienze di tanti anni fa facendomi rivivere scenari di vita e di lavoro assai diversi da quelli attuali; dipende forse dalla mia fascia di età molto avanzata che ora mi concede tanto tempo per riflettere.
Alcuni giorni or sono, percorrendo in macchina una strada di campagna, ha attirato la mia attenzione un campo di grano con le spighe già alte che il vento faceva ondeggiare e mi sono fermato a osservarle per diversi minuti; mi è tornata in mente, così, l’immagine di uno dei diversi compaesani che d’estate, a Capracotta, cavalcavano un mulo o un asino al cui basto erano assicurati due contenitori cui credo venisse dato il nome dialettale di “carrucl”. Erano composti da un telaio in legno con dei fori attraversati da bastoni ricurvi a formare come una griglia per contenere i covoni, ma colpiva moltissimo il fatto che all’animale fosse applicata una specie di museruola destinata, naturalmente, a impedirgli di mangiare il prezioso cereale che trasportava.
Ricordavo soprattutto che diversi di quei cari lavoratori svolgevano, in prevalenza, l’attività di conduttori di buoi; andavano considerati quindi, a tutti gli effetti, dei “bovari” particolarmente apprezzati anche per la capacità di utilizzare, nel trasporto agricolo, la cosiddetta “traglia”. Ho motivo di temere che nessuno dei giovani di oggi la saprebbe descrivere e cerco, perciò, di rammentarne le caratteristiche:
“Si tratta di una specie di slitta munita di una stanga (trèglionɘ) a cui si aggiogava una coppia di buoi e composta da due pattini di legno uniti da due assi su cui poggiavano trasversalmente delle tavole a formare un piano di carico su cui andava disposto il materiale agricolo. I pattini potevano essere rinforzati con una banda di ferro per evitarne il consumo sui fondi sassosi e la slitta veniva usata su terreni disagevoli e fondi sconnessi, al posto dei carretti, rispetto ai quali aveva i seguenti vantaggi:
- maggior robustezza
- facilità di costruzione
- minor ingombro
- versatilità di utilizzo, ad esempio in qualsiasi stagione, con neve e fango, e su qualsiasi fondo come mulattiera o prato” (Wikipedia)
La tradizione di questo rudimentale, ma efficace mezzo di trasporto agricolo, in passato era molto diffusa nel Molise e in diverse altre regioni italiane sebbene fosse conosciuto anche con nomi diversi: per esempio, “treggia” in Toscana o “traia” in altre zone del Centro Italia; è doveroso, anzi, ricordare la famosa sfilata delle “traglie” cariche di grano a Jelsi, in provincia di Campobasso durante la festa di sant’Anna, il 26 luglio: giorno in cui, nel 1805, si verificò un disastroso terremoto la cui distruzione aveva prodigiosamente risparmiato la popolazione di quel comune. Superfluo ripetere che soprattutto in alta montagna, a Capracotta in particolare, questo semplicissimo mezzo di trasporto era molto popolare, ma tutto dipendeva dalla bravura e all’esperienza del…bovaro non disgiunta, s’intende, dalla pazienza e dalla forza dei buoi. A riguardo di questi mansueti quadrupedi, ormai purtroppo quasi dimenticati, non è superfluo ricordare che:
“Il Bue domestico (Bos Taurus) discende dal Bos primigenius, che, originario dell’Asia, si diffuse poi in Europa; le tracce più antiche della sua presenza, scoperte in Tessaglia e Macedonia, risalgono rispettivamente al 6.500 a.C. e 6.100 a.C. e ciò significa che questi bovini furono addomesticati nel settimo millennio”.
Possono far sorridere, ora, le mie parole di elogio per l’eccezionale abilità degli antichi bovari di Capracotta, ma è indubitabile che si trattava di persone in estrema, quasi fraterna sintonia con i loro animali: al punto che riuscivano ad ottenerne la massima collaborazione e, spesso, ricorrendo a semplici comandi vocali; sono certo, inoltre, che la loro esperienza fosse preziosa non tanto e non solo nell’utilizzo delle traglie, quanto e soprattutto nella delicata attività di aratura dei campi: quella per cui il bovaro assumeva lo strano appellativo dialettale di “ualanɘ”.
A tale proposito, mi è parsa molto eloquente e suggestiva la poesia di Guglielmo Lo Curzio che si intitola appunto “Aratura”:
“Nell’ampia pace vanno i lenti buoi:
lasciansi dietro la traccia feconda;
il vecchio aratro nella terra affonda
l’acuto dente, che nell’alba splende.
Urta e dirompe, arrestasi, riprende:
e non v’è inciampo che lo scarti. Poi
mentre il monte infuocato il sol corona
l’uomo canta, a ritmo, pungolando i buoi:
dura è la terra, ma la spiga è buona”.
Avviandomi ora all’epilogo,ricordo cheda ragazzo mi capitava spesso di assistere alle tradizionali operazioni di aratura nei terreni della mia famiglia, in località “Orto Ianiro” e restavo sempre incredibilmente ammirato della perfezione nelle linee dei “maggesi” che i bovari tracciavano con l’aratro; anche di questi ultimi, anzi, mi sembra opportuno ricordare la definizione:
“ era una pratica agricola (inizialmente svolta nel mese di maggio), consistente nel sottoporre a una serie di lavorazioni un terreno tenuto a riposo, per prepararlo a una successiva coltivazione; col maggese si raggiungono effetti molto importanti come rendere soffice il terreno, liberarlo dalle erbe infestanti, arricchirlo di sostanze nutritive, rese solubili dai diversi agenti naturali, favorire la vita dei microrganismi; l’azione più importante è tuttavia quella di favorire la penetrazione e l’immagazzinamento di acqua nel suolo”.
Così, non posso che augurarmi di essere riuscito a rendere omaggio a un’altra tra le faticose, nobili attività di uomini e animali del passato a Capracotta: quella del “bovaro”; e mi piace concludere il mio encomio con la poesia di Tonino Guerra intitolata “I Buoi” che, pur meritando di essere trascritta in dialetto romagnolo, preferisco riportare in italiano:
“Andate a dire ai buoi che vadano via,
che il loro lavoro non ci serve più,
che oggi si fa prima ad arare col trattore.
E poi commuoviamoci pure a pensare
alla fatica che hanno fatto per migliaia d’anni…”.
Aldo Trotta