Ho raccontato spesso di amici e conoscenti che essendosene dovuti, come me allontanare per i più diversi motivi, sembrano talora deridermi per il fortissimo legame che tuttora dimostro nei confronti di Capracotta, il paese in cui sono nato e poi vissuto fino all’età di 16 anni; faccio grande fatica, infatti, a esorcizzare la nostalgia o, quanto meno, a minimizzarne le conseguenze sul tono del mio umore. Negli ultimi tempi poi, con molto dispiacere, ho avuto l’impressione che qualcuno dimostrasse persino una certa disaffezione per quelle, tanto care radici montanare: e non solo, come ci si potrebbe attendere, tra i più giovani diventati ormai “cosmopoliti”, ma anche tra le persone adulte o quelle in età avanzata; e pensare che, secondo le più recenti acquisizioni, i nostalgici non rimpiangono la perdita di un luogo del cuore, ma di una stagione felicemente vissuta nel passato.
Riconosco ora che il mio temperamento è incline al pessimismo ma, pur nell’impossibilità di tornare stabilmente nel mio luogo di nascita, non mi sono mai psicologicamente arreso; al contrario, lasciando sempre spazio alle illusioni, ho inseguito una chimera facendo pure affidamento sulla forza d’animo di coloro che sono rimasti a vivere in paese o che vi abitano tuttora: i cosiddetti “restanti”, sempre meno numerosi purtroppo, a causa del crescente spopolamento.
E il mio è stato certamente un errore perché, come sostiene il professor Vito Teti, nel concetto di “restanza” è racchiusa la sua forza ma anche, purtroppo, la sua debolezza:
“la restanza è infatti una condizione per cui chi rimane a vivere, per scelta o per necessità, nel luogo di origine finisce poi per sentirsi ancorato e insieme spaesato in un luogo da proteggere e, al tempo stesso, da rigenerare radicalmente”; in altri termini, forse troppo semplicisticamente, anch’io come tanti avevo creduto che:
“si potesse evitare ai nostri luoghi e ai nostri monti il rischio di diventare una malinconica meta per irriducibili cultori dell’abbandono”.
Non mi pare, infatti, che si possano dormire sonni tranquilli e che anzi stiano pericolosamente affiorando alcuni segnali di chiusura, talora di vero contrasto tra chi è partito e chi è rimasto: cioè tra i “restanti” e gli “erranti”, per usare un linguaggio scientifico; a giudizio dei sociologi negli ultimi anni avrebbe influito negativamente l’isolamento motivato dalla recente pandemia di COVID e anche la maggior freddezza nelle relazioni umane che, purtroppo, ha contagiato anche le piccole comunità.
Ora è proprio il colmo per me, ma in diverse occasioni che mi facevano pregustare un soggiorno rivitalizzante in paese, sono poi stato molto indeciso se raggiungerlo o meno: grosso modo sperimentando lo stesso, paradossale imbarazzo che traspare dalla famosa canzone napoletana “Munasterio ‘e Santa Chiara”:
“e moro pe’ sta smania ‘e turnà a Napule
ma c’aggi ‘a fa?
Me fa paura ‘e ce turnà”.
Così in questi giorni, di nuovo oscillando tra entusiasmo e timore all’idea di trascorrere un lungo periodo a Capracotta, ho ricevuto in dono un volume di cui mi ha molto impressionato il titolo:
“Il libro dei paesi morti – poesie dell’abbandono”;
il suo autore è un abruzzese che si chiama Remo RAPINO, nato a Casalanguida in provincia di Chieti e che, oltre ad essere professore emerito di Storia e Filosofia del Liceo, è un famoso scrittore già candidato al premio Strega e vincitore del premio Campiello nel 2020.
Prima ancora di poterlo leggere con calma, ne ho sfogliato le pagine e mi sono imbattuto in una poesia davvero angosciante, intitolata “Le mani del vecchio”:
“Il paese è un vecchio che muore,
si fa polvere con gli occhi spenti,
il cuore fragile che non sogna più,
il vecchio guarda fisso il muro,
passa le ultime ore oscillando il capo
per allontanare il dolore delle pietre.
Avrebbe molto da dire, il vecchio,
una vita intera: il tempo consuma
ogni parola, il silenzio è una velata.
Le mani del vecchio possono stringere
solo il vento che porta nuvole stanche,
che si fermano, vanno per non tornare”.
Nulla di più eloquente, ho pensato, per rappresentare il mio sconforto ma si trattava, per fortuna, di un’impressione frettolosa e superficiale, pur essendo innegabile che questi versi esprimano un doloroso sentimento di tristezza: che si coglie anche nella maggior parte degli altri brani, come quello intitolato “Dove cammina il vento”.
Le sue parole, a mio giudizio, esprimono drammaticamente il fenomeno dello spopolamento e dell’emigrazione che ha coinvolto pesantemente tanti piccoli comuni dell’Abruzzo e del Molise, esattamente come a Capracotta:
“I segreti delle case sono ombre:
invecchiano nelle stanze vuote
che dentro ci cammina il vento
e sui tetti il pallore della luna.
Permane la questua d’un saluto,
sussurri alle finestre, sulla porta,
il fuoco balbetta nella fuliggine.
L’orologio del municipio ammuta
il suo cuore malandato, le lancette
illudono l’antica misura del tempo
che affanna e fa straniero il mondo”.
Proseguendo nella riflessione, ho sperato che i miei percorsi mentali non risultassero poi molto diversi da quelli del professor Rapino; nel senso che a volte, del tutto comprensibilmente, si può passare da un periodo di sconforto a un altro di pur relativa euforia sempre restando, s’intende, in un contesto di assoluta normalità neuropsichica: non rischiando cioè, neppure lontanamente, quella che in gergo psichiatrico si chiama “ciclotimia”.
E non sono rimasto deluso perché, leggendo tutte le poesie, ho avuto la consolante sorpresa di trovarne alcune in cui sembra proprio attenuarsi lo sconforto dell’autore, e di conseguenza anche il mio: con il cuore che sembra prodigiosamente aprirsi a prospettive di rinnovata speranza; avviandomi ora alla conclusione, mi piace riportarne una particolarmente “rasserenante” che sento, oltre tutto, molto vicina alla mia storia personale e alla mia sensibilità. Si intitola “Saranno ancora voci”:
“Le voci raccontano molte cose:
nascono dalla terra, partono,
si perdono, tornano col vento.
Possono farsi memoria, sguardo,
gesto, silenzio, un velo che copre
i paesaggi, le pietre, i passi morti,
le mani che sfiorano il grano.
Gli uomini sono silenzi viventi,
l’albero di confine è un guardiano
di rovine tra le nuvole e la piana.
Il miracolo accade; si ricomincia,
saranno ancora voci, orme incerte
di vecchi lupi sperduti nella neve”
A questo punto, in tutta sincerità, mi sembra proprio di rassomigliare a un vecchio lupo “sperduto” che si muove lasciando le sue “orme incerte” sulla sabbia del mare piuttosto che sulla neve dei nostri monti; ma non voglio che, ancora una volta, sia la tristezza a prevalere perché troppo bella e lusinghiera è la speranza che, anche a Capracotta, si possa …ricominciare (ed io con lei?):
il nostro caro paese non è, né potrà mai diventarlo,
un …paese abbandonato!
Aldo Trotta
Bibliografia:
- Vito Teti, “Nostalgia”, Marietti Editore 2020
- Remo Rapino – “Il libro dei paesi morti – Poesie dell’abbandono”, Italia Nostra Editrice, 2024