È nei mesi scorsi che ho maturato l’idea, insieme alle mie figlie, di svuotare la casa che per circa 40 anni abbiamo utilizzato abitando all’Aquila; infatti, essendoci trasferiti già nel 2014 sulla costa adriatica, mi era sempre parso inopportuno deciderlo e specialmente essendo ancora presente mia moglie Anna. La sua scomparsa poi, avvenuta lo scorso anno, è sembrata far cadere ogni remora, specie nella prospettiva di cedere finalmente in vendita quella casa ed è con mia grande sorpresa che mi sono reso conto dell’incredibile quantità di oggetti e di ricordi che aveva custodito per tanto tempo: basti pensare che, incredibilmente, sono già trascorsi 15 anni dal disastroso evento sismico del 2009.
E’ stato perciò commovente ritrovarmi a frugare nella nostra grande soffitta in cui erano state collocate le cose più svariate di cui la maggior parte conservate in grandi scatoloni di cartone con tanto di etichetta scritta in bella grafia, col pennarello, da mia moglie; e sarebbe davvero impossibile elencarle tutte per il loro numero inimmaginabile: dal prezioso epistolario dei nostri anni di fidanzamento, ai quaderni scolastici delle mie figlie, alle annate di molte riviste, a vecchi, dimenticati soprammobili e a tanto altro.
Inutile aggiungere che anche il più modesto di tali ricordi ha rievocato un particolare periodo della mia vita facendomelo rivivere, per di più, con grande coinvolgimento emotivo; bisognava, tuttavia, che raggiungessi l’angolo più recondito della soffitta perché saltasse fuori un autentico “pezzo di antiquariato” rappresentato dal classico, antico scaldaletto di legno che avevo utilizzato anch’io da bambino e da ragazzo a Capracotta.
Questo dispositivo, che certamente i più giovani di oggi non hanno mai conosciuto, era costituito da due semiarchi uniti, a una certa distanza, da inserti triangolari nella parte finale e distanziati verticalmente al centro da sottili colonnine laterali; era dotato inoltre di un supporto quadrangolare, spesso ricoperto di lamiera, su cui si collocava un recipiente metallico o di terracotta con della brace rovente: di solito opportunatamente cosparsa di cenere per mitigarne il calore, ma facendo in modo che il letto si scaldasse in sicurezza, con le coperte che restavano sollevate.
Mi è subito tornato in mente che, nel linguaggio dialettale di Capracotta, questo prezioso utensile veniva chiamato “monaco”: il che suscitava spesso una piccola diatriba con mia nonna Guglielma che, proveniente dalla pianura padana, lo conosceva con il nome di “prete”; ho ricordato pure che in alcune regioni del Nord Italia il piccolo braciere centrale assumeva lo strano nome di “suora” ed è stato perciò spontaneo che si riproponesse questo interrogativo:
“Perché il nostro vocabolo dialettale, insieme agli altri due, sembra nascondere un significato religioso, direi quasi monastico?”
Ho verificato così, ancora una volta, che non c’è una risposta attendibile pur essendo nota l’origine greca del termine “monaco”, (“mοnακόs”) che vuol dire “solitario”: un aggettivo certamente adatto ai frati di clausura ma che non fornisce una spiegazione etimologica plausibile; a tale proposito non si può ignorare una corrente di pensiero che fa riferimento a storielle licenziose di cui sarebbero stati protagonisti proprio questi religiosi, ma è verosimile che esse derivino dall’irriverente ironia di chissà quali antenati; sorprende comunque che, in effetti, questa singolare terminologia si fosse affermata in quasi tutto il territorio nazionale.
Da parte mia, lo ripeto, non dispongo di alcuna prova documentale ma preferisco pensare che in passato lo scaldaletto fosse stato considerato alla stregua di una suppellettile liturgica: per intenderci, quasi come il “turibolo” in cui arde l’incenso durante le funzioni liturgiche; a tale proposito io stesso ricordo che, nel minuzioso rito quotidiano di preparazione del “monaco”, si diffondeva nella stanza il profumo di scorze di arancia o di altri aromi naturali bruciati proprio come l’incenso.
Sono ora felice di aver riportato alla luce quel prezioso cimelio, che anzi non mi stanco di guardare e di riguardare nell’unico rammarico di vederne il vecchissimo legno un po’ danneggiato dai tarli: ma avrò cura di farlo restaurare al più presto; ho avuto soprattutto occasione di riflettere ai difficili e lontani anni in cui le nostre case disponevano di una sola fonte di riscaldamento rappresentata da un caminetto o da una stufa a legna collocata nella cucina-soggiorno. Tutti gli altri ambienti erano infatti talmente freddi da far congelare persino il latte fresco e per noi bambini, al mattino, il suo strato di panna solidificato diventava un golosissimo ghiacciolo da gustare in allegra euforia, magari con un po’ di zucchero, come un gelato.
Davvero indicativa, inoltre, del tremendo clima invernale di Capracotta in quegli anni, è la simpaticissima battuta di una giovane, cara cugina della mia mamma; anche lei proveniente dalla provincia di Ferrara, negli anni ’50 si fermava abbastanza a lungo con noi e ricordo che un giorno in cui imperversava una grossa tormenta di neve, non riusciva a dissimulare l’urgenza di recarsi in bagno; la nonna, perciò, le chiese sottovoce che cosa la trattenesse e la sua incredibile risposta suscitò la fragorosa ilarità di tutti:
“In tutta sincerità, mi spaventa talmente il freddo da aver timore che persino la ‘pipì’ si possa congelare!”.
Scherzi a parte è davvero difficile, tanto più in epoca di “riscaldamento globale”, raccontare alle nuove generazioni dell’estremo rigore invernale in quegli anni a Capracotta; a maggior ragione, perciò, ritengo sia ancor più arduo far loro comprendere l’importanza esistenziale di quel singolare attrezzo chiamato “monaco”; mi piace pertanto citare testualmente le parole dello scrittore Antonio Sordi nel suo libro intitolato “L’Aia di ‘Botta”, pubblicato molto recentemente:
“Una cosa che voi giovani di oggi non proverete mai, fra le tante ormai perdute, è il profumo particolare di quelle lenzuola, specie d’inverno quanto erano riscaldate dal fuoco a letto. Chi ha vissuto queste esperienze, non lo dimenticherà mai. Scivolare sotto le lenzuola di bucato, dopo aver tolto il fuoco (per noi il monaco), era un momento divino, per niente paragonabile alle varie e moderne coperte elettriche di oggi. É come fare il confronto fra il sole a mezzogiorno e il chiaro di luna …!”.
Potrà così apparire incredibile, ma io non penso di esagerare affermando che il “monaco” meriti di essere annoverato e ricordato a pieno titolo tra i più provvidenziali utensili di Capracotta: cui non potremo che restare debitori di tanta riconoscenza.
Aldo Trotta