Un’alfetta color faggio: la mia grande passione giovanile

Pur non avendo avuto l’occasione di vederlo, mi è stato segnalato che nelle scene iniziali del film “L’ARMINUTA” (2021), tratto dall’omonimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, compare un’automobile “Alfa Romeo Alfetta”: proprio uguale alla mia che avevo acquistato oltre 50 anni fa e che era stata l’oggetto dei miei sogni fin dalla sua presentazione, avvenuta alcuni mesi prima; è stato poi coinvolgente ritrovare in casa il semplice portachiavi ricevuto nel momento della sua consegna, mentre sono andate smarrite, e me ne dispiace tanto, le pochissime foto originali di cui disponevo.

È superfluo che ricordi la mia predilezione per i motori e per le automobili certamente favorita, nel dopoguerra, dal fatto che stava cominciando una loro più estesa diffusione; farà certo sorridere ma, da bambino, diventavo quasi pazzo di gioia quando un nostro congiunto, il caro Leo, mi invitava a salire sulla sua, già storica “FIAT 508” (Balilla).

In seguito sono stato più fortunato di tanti della mia generazione perché già all’età di 21 anni, nel 1964, sono divenuto proprietario di una “FIAT 600” grigia e poi, nel 1970, di una “FIAT 128” verde ed è innegabile che anche queste vetture abbiano significato molto per me; ma è un’altra l’automobile che mi è letteralmente rimasta nel cuore, per di più  essendo collegata al ricordo di un caro collega più anziano di me, conosciuto iniziando la mia attività ospedaliera all’Aquila; lo avevo incontrato, infatti, proprio nel giorno in cui il primo esemplare di Alfetta Alfa Romeo venne esposto nell’autosalone del Sig. Italo Gasbarri all’Aquila, e non gli sfuggì la mia espressione di compiacimento e di desiderio al tempo stesso. Così, ricambiando i miei saluti, mi ringraziò aggiungendo:

“Ho letto nel tuo sguardo che ti piacerebbe moltissimo acquistare questa splendida automobile ma ho pure intuito che non hai denaro sufficiente; se posso darti un consiglio amichevole, è proprio questa la ragione paradossale per cui non devi esitare a comperarla”.

Sul momento confesso di essere rimasto perplesso ma sta di fatto che, superando ogni difficoltà, qualche mese più tardi ebbi il coraggio di staccare un assegno che superava i due milioni di vecchie lire: una vera follia per quei tempi, specie considerando che era appena nata la primogenita delle mie due figlie, Daniela; aggiungo poi che, al momento della prenotazione, fui colpito dal colore “marrone-rossastro” di un’Alfetta in esposizione che mi piacque a tal punto da indurmi a ordinarla identica; appresi solo in seguito, sfogliandone il dépliant, che quella verniciatura era denominata “faggio” il  che, di primo acchito, avrebbe suggerito a chiunque una tonalità di verde; al contrario quel colore così originale si ispirava al “foliage” tardo-autunnale degli alberi di faggio o forse ancor  più, conoscendo le faggete, alle cosiddette “galle”.

Queste ultime sono piccole escrescenze piriformi delle foglie provocate dalle larve di un insetto chiamato “cecidomia del faggio”) (“Mikiola fagi”) e, tutto sommato, resto dell’idea che questa sia l’ipotesi più attendibile: stante la loro impareggiabile sfumatura violacea.

Era targata “AQ 90.071” la mia Alfetta e non tardai, da appassionato com’ero, a studiarla in ogni dettaglio; mi esaltava in particolare il fatto che il suo nome derivasse quello di precedenti modelli sportivi come l’Alfa 159 Alfetta: che, guidata dal pilota Juan Manuel Fangio di origini abruzzesi, aveva vinto molti prestigiosi trofei tra cui il gran Premio di formula 1 del 1951. Così ebbi modo di conoscere diversi aneddoti che riguardavano il periodo della sua progettazione; una volta un collaudatore, rimproverato da un anziano della val d’Aosta perché andava troppo veloce, per di più guidando un esemplare di Alfetta camuffato da furgoncino, si giustificò facendogli credere di avere urgenza per consegnare del…pesce fresco!

Divenni comunque esperto di una caratteristica peculiare di quell’auto, il cosiddetto “Ponte De Dion” di cui non è facile, per me, la descrizione; in estrema sintesi questo tipo di ponte posteriore aveva una struttura triangolare fissata con uno dei vertici alla scocca e collegata, mediante un angolo, alle ruote disposte sugli altri due vertici.

Questo raffinato dispositivo, consentendo il montaggio del gruppo cambio-differenziale sulla scocca, permetteva di ridurre il peso delle masse non sospese e quindi di ottenere una migliore aderenza delle ruote motrici; un’altra avveniristica dotazione poi, chiamata “Parallelogramma di Watt”, contribuiva al controllo degli scuotimenti del retrotreno sull’asse verticale facendo sì che le ruote rimanessero sempre perpendicolari al terreno.

Tutto ciò potrebbe indurre a ritenere che si fosse raggiunto, già tanti anni fa, lo stesso livello di aderenza che oggi assicurano le moderne vetture a trazione integrale; in realtà non era purtroppo così e l’Alfetta faceva davvero un po’ soffrire quando nevicava o c’era ghiaccio, per di più senza l’ausilio degli attuali pneumatici invernali. Spesso, infatti, si cercava di rimediare collocando dei grossi pesi-zavorra nel bagagliaio e appesantendo così il retrotreno, ma in tutte le altre condizioni ambientali e di terreno la vettura dava una sensazione di grande stabilità dimostrando un’incredibile tenuta di strada; guidandola infatti senza abusare delle sue brillanti prestazioni, sebbene fosse a trazione posteriore, affrontava in assoluta sicurezza anche i tornanti di montagna più impegnativi.

Quella meravigliosa vettura mi ha tenuto compagnia per circa 12 anni essendo poi costretto a privarmene perché stavano diventando inarrestabili, nonostante le mie cure, i danni della ruggine sulla carrozzeria; ricordandolo, è davvero un peccato non averla potuta conservare anche solo come modello storico: pagherei chissà cosa se potessi rivederla e, soprattutto, se potessi ancora guidarla.

A conclusione infine, di questi bei ricordi, mi torna in mente la famosa espressione di Henry Ford, fondatore dell’omonima industria automobilistica americana, che nel 1939 esclamava:

“Quando vedo passare un’Alfa Romeo, mi tolgo sempre il cappello!”

E non c’è dubbio che, sia pure simbolicamente, lo abbia appena fatto anch’io raccontando con emozione, dopo tanti anni, della mia straordinaria Alfetta color faggio”: l’automobile che ho amato più di tutte e che è stata la mia vera, grande passione giovanile.

Aldo Trotta