Credo sia comprensibile che il pensiero di un vecchio pensionato come me si rivolga ora, imprevedibilmente, a questo o a quell’argomento; stavolta ho avuto occasione di riflettere osservando la splendida immagine di una faggeta ripresa dall’alto a Capracotta, con l’ausilio di un drone, dall’amico Giorgio Paglione (foto in alto, ndr). In genere il fogliame delle foreste di faggio è un continuo manto verde che si interrompe solo in corrispondenza delle radure ma, quella fotografia faceva trasparire tutto il fascino autunnale del bosco che, si può dire, circonda come una corona il meraviglioso pianoro di prato Gentile; e non è certamente un caso che sia stato annoverato, proprio in questi giorni, tra i 10 più belli di tutta Italia.
A ottobre, poi, “la faggeta” è un caleidoscopio di colori cangianti dal giallo all’arancione, al marrone rossastro, il che favorisce gli appassionati del cosiddetto “foliage”, divenuto una vera e propria forma di escursionismo turistico anche in Italia; da parte mia ho preso spunto per approfondire il significato che hanno avuto e hanno tuttora per me questi alberi: a cominciare naturalmente dal fatto che in passato, negli anni vissuti in paese, rappresentavano un bene di importanza esistenziale per la legna da riscaldamento che fornivano.
Non sono certamente un esperto di scienze forestali, ma non posso prescindere da alcune premesse, iniziando dal nome; il “faggio”, chiamato anche faggio comune, faggio occidentale o faggio europeo (Fagus sylvatica) è una specie arborea della famiglia delle “Fagacee” e il suo appellativo deriva dal greco φαγός (fagós), in latino fagus) mentre il termine sylvatica deriva, naturalmente, da “sylva” (selva o bosco).
Il suo tronco è diritto, quasi cilindrico da giovane e largamente scanalato da vecchio, presenta una corteccia sottile caratteristicamente liscia e lucente di colore grigio chiaro; i frutti, rassomiglianti a piccole castagne, sono chiamati “faggiole” e si trovano racchiuse, due a due, in un involucro rigido ricoperto di morbidi aculei; sapevo bene che esse costituiscono la fonte di sostentamento per diverse specie di animali, primi fra tutti i cinghiali e non è casuale, infatti, che la parola faggio derivi proprio dal greco “faghein”, mangiare. Ignoravo, invece, che anche l’uomo in passato ne avesse beneficiato ricavandone olio alimentare e, in tempi di carestia, persino farina per il pane ma, come per altri argomenti, ci sarebbe materia per scrivere un trattato sui faggi, sulla loro sostenibilità ambientale e sul loro utilizzo in molti settori.
Restando in tema, mi piace ricordare che in diverse regioni italiane esistono piante “monumentali” di questa specie e mi torna in mente che anche nel nostro piccolo Molise, proprio vicino a Capracotta, esisteva un gigantesco faggio di circa 500 anni, 40 metri di altezza e con 7 metri di circonferenza nel tronco; era denominato in dialetto il “Re Faiòne” e non sorprende che fosse meta di veri e propri pellegrinaggi ma nel 2017, sfortunatamente, anche quest’albero così regale si è dovuto arrendere agli anni e alle intemperie.
Ricordavo tra l’altro di una mia escursione, tanto tempo fa, in quella faggeta e posso testimoniare della meraviglia che suscitava quella straordinaria pianta; mi sono poi tornate in mente le numerose passeggiate, nelle più diverse occasioni e in ogni stagione, nei boschi di faggio a Capracotta e dintorni e sono convinto che ognuna di esse meriterebbe uno specifico racconto. Non è certo possibile ma, escludendo naturalmente i testi scientifici di botanica e di silvicoltura, mi ha davvero impressionato la mole di componimenti letterari dedicati ai faggi; non pensavo davvero che ce ne fossero tanti ma, dalle mie reminiscenze di liceo, è subito riaffiorato il verso iniziale delle “Bucoliche”: un esempio del cosiddetto “esametro dattilico” cui classicamente ricorreva il mio insegnante per farci entrare nello spirito della “metrica” latina:
“Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi…”
(Titiro, tu che te ne stai sdraiato sotto la grande chioma di un faggio…)
È molto suggestivo, infatti, che sia stato proprio il faggio a meritare le prime parole di questa famosa opera di Virgilio, ma io sono rimasto ancor più colpito dalla lettura di uno dei Canti di Giacomo Leopardi intitolato “Imitazione”; si tratta, infatti, di una eccezionale traduzione in italiano della poesia in francese di Antonio Arnault dedicata ai faggi: “La feuille” (“La foglia”), che dice così:
“Lungi dal proprio ramo,
povera foglia frale,
dove vai tu? – Dal faggio
là dov’io nacqui mi divise il vento.
Esso, tornando a volo
dal bosco alla campagna,
dalla valle mi porta alla montagna.
Seco perpetuamente
vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro.
Vo dove ogni altra cosa,
dove naturalmente
va la foglia di rosa,
e la foglia d’alloro”.
A mio modesto giudizio, ma non potrebbe essere altrimenti, questi versi lasciano trasparire una delicata nota di malinconia sottolineata dalle foglie che vagano senza sosta fino a cadere e tutto ciò si addice particolarmente alla stagione autunnale e, soprattutto, al mio stato d’animo attuale; avviandomi infine alla conclusione, mi piace cogliere questa occasione per ricordare le mie più belle esperienze vissute in un bosco di faggi a Capracotta: quelle, troppo poche purtroppo, in cui mi è stato possibile percorrere con gli sci da fondo, nel periodo invernale, la grande “pista di Prato Gentile”. Era incantevole avere accanto quella teoria infinita di alberi altissimi, tutti spogli e spesso incrostati di ghiaccio, ma non è facile descrivere la grande emozione che provavo; ad ogni modo, tanto per tentare di farlo con un esempio, posso solo dire che ogni volta avevo l’impressione di trovarmi in una silenziosa, incredibile cattedrale gotica.
Aldo Trotta