Quegli strani anelli sui muri delle case… a Capracotta

Durante l’estate, per la prima volta dopo tanto tempo, ho trascorso alcune settimane nella mia vecchia casa paterna di Capracotta; e, naturalmente, sono riaffiorati tanti ulteriori ricordi, sia pure di piccolissime cose. Ne racconto oggi una tra le più singolari con la premessa che davanti a quel vecchio edificio c’è tuttora una rudimentale panchina composta da blocchi di pietra che per tanti decenni, in passato, ha rappresentato un punto di sosta e di riposo anche per i vicini di casa o per i semplici passanti; tutti la utilizzavano con molto piacere sebbene non fosse comodissima e anch’io, quest’anno, ne ho usufruito rimanendovi seduto a lungo per godere momenti di impareggiabile serenità.

E’ accaduto così che un bimbo piccolo vi è salito d’improvviso, restando in piedi accanto a me, perché lo incuriosiva un anello di ferro che vedeva attaccato al muro; mi ha chiesto, con molto garbo, a cosa servisse e io ho cercato di spiegargli che in passato veniva utilizzato per tenervi legati gli animali da soma, come cavalli, muli o asinelli: che allora erano gli unici mezzi di trasporto disponibili; il piccolo è parso un po’ perplesso alle mie parole ma, nel frattempo, ho notato che aveva già cominciato a giocare con quello strano anello: infatti, esattamente come facevo anch’io da piccolo, lo faceva rimbalzare su e giù riproducendo lo squillante tintinnio di una campanella.

In alcune regioni infatti quell’oggetto, spesso finemente lavorato, veniva chiamato “campanella” oppure “catènella” ed era sospeso all’esterno delle case per legarvi gli animali da soma con la cavezza (detta pure lunghina) o, nel nostro dialetto, capezza; poco dopo, fuggito via con un sorrisetto quel simpatico bambino, ho rivolto lo sguardo all’architrave del nostro portone di ingresso su cui è tuttora scolpita e leggibile l’iscrizione “C.T.”, 1907. Sono le iniziali di mio nonno paterno, che si chiamava Carmine Trotta, seguite dalla data di costruzione dell’edificio: e mi è parso davvero incredibile che quell’ anello fosse lì da oltre 110 anni; ho voluto così documentarmi sull’argomento e ho appreso di un trattato edito a Napoli nel 1856, scritto da Francesco De Cesare e intitolato “La Scienza e l’arte dell’architettura applicata alla costruzione degli edifici civili”.

 Vi si legge, tra l’altro, che:

“Non vanno dimenticati gli anelli per l’attacco dei cavalli che devono essere collocati all’altezza di 2 metri dal suolo, predisponendo dei prismi di pietra della cubatura di circa 26 cm…”

Il prisma dev’essere solidamente fabbricato durante la costruzione nel muro affinché non ceda ai movimenti del cavallo; meglio è conformare il masso a piramide tronca con la base nell’interno del muro”.

A più riprese poi, durante il mio soggiorno in paese, mi sono fermato a osservare anche i cerchi metallici che si trovano sul retro della nostra casa perché collocati a ridosso degli ambienti che, nel passato remoto, erano stati utilizzati come stalle; ho rivissuto così le innumerevoli occasioni in cui, da ragazzo, uno dei miei passatempi preferiti era osservare quegli animali che pazientemente si lasciavano caricare o scaricare restando legati, buoni buoni, al muro. Così riflettevo al fatto che, per così dire, tanta della nostra storia di famiglia era passata un po’ da quegli anelli e mi dispiace che purtroppo non ci siano documenti fotografici né, tanto meno filmati di quei difficili, remoti anni.

Da parte mia ho ancora una volta sperimentato la potenza evocativa dei ricordi infantili perché, durante il mio soggiorno in paese, ho avuto l’impressione di trovarmi accanto a qualcuno di quei preziosi animali: in particolare quelli che, più frequentemente, utilizzavano i nostri anelli; perciò, come sognando a occhi aperti, è stato un piacere rivedere un robusto mulo rossiccio appartenente a un ortolano del vicino comune di Sant’Angelo del Pesco che si chiamava, guarda caso, “Felice”. Ogni volta che arrivava a Capracotta infatti, era sicuro che mio padre Ottaviano lo avrebbe invitato a fermarsi per poter comperare le sue magnifiche verdure.

Ricordo inoltre, come se la incontrassi in questo momento pur non rammentandone il nome, un’anziana signora che, in modo del tutto analogo, lo riforniva di sottili fascine di legna per accendere il fuoco; il suo docilissimo animale era un simpatico asinello cui, come si diceva in paese, mancava solo… il dono della parola.

Avviandomi così alla conclusione, sono sincero confessando che dopo l’estate, prima di lasciare la casa paterna e ripartire, mi ha rattristato osservare che al posto di quei cari animali, sebbene tuttora contrassegnato dai loro anelli, ci fossero parcheggiate diverse automobili: che non lasciavano spazio sufficiente neppure per sedersi sulla vecchia panchina di pietra.

Che peccato!

Aldo Trotta