Lasciandomi coinvolgere dal fascino di una semplice immagine, ho avuto nuovamente occasione di riflettere ai profumi e ai colori che hanno fatto da cornice al mio mondo giovanile di tanti anni fa: quello vissuto a Capracotta e che io mi sforzo di raccontare, piuttosto che rimpiangere come sarei tentato di fare.
A risvegliare l’emozione di oggi ha contribuito una fotografia, scattata lungo un sentiero di montagna, che ritrae una pianta di “Rosa Canina” carica delle sue bellissime bacche rosse autunnali; si tratta di una specie originaria dell’Europa, dell’Asia occidentale e dell’Africa settentrionale, che cresce allo stato selvatico in zone boschive, collinari o montuose. Questa pianta raggiunge in genere un’altezza di circa 2-3 metri e produce fiori dai petali delicati di colore che varia dal bianco al rosa intenso ma che, ripensandoci, mi sono accorto di non conoscere più di tanto; ho deciso, perciò, che al più presto avrei cercato di colmare questa lacuna. Così mi sono reso conto con piacere che sono diversi gli esperti di questa specie anche tra i concittadini capracottesi: in primis l’amico Antonio D’Andrea, appassionato naturalista che da par suo si è dedicato alle sue singolari caratteristiche, nonché alle sue peculiarità gastronomiche e terapeutiche. Dei tanti i lavori sul tema di questa pianta, che è davvero impossibile conoscere, mi piace citare solo due: quello della professoressa Karin Rauer intitolato “La rosa canina, il tesoro rosso di Capracotta” e un altro dell’amico architetto Franco Valente, “La rosa canina nell’araldica e nell’architettura molisana”; è stato peraltro inevitabile che, da profano della materia, mi chiedessi quale pur modesto contributo avrei potuto aggiungere io. Certamente del tutto irrilevante, ho pensato ma, avendo tanto tempo disponibile, ho voluto mettermi in gioco e naturalmente la mia prima curiosità non è stata tanto per il comunissimo nome di “rosa”, quanto e soprattutto per l’appellativo di “canina”. Non sono purtroppo riuscito a trovare una spiegazione etimologica attendibile dello strano termine dialettale di Capracotta, “cacaviàsce”, attribuito alle sue bacche mentre sono tanti e molto diversi gli appellativi sul territorio nazionale; solo nella regione Marche si fa ricorso a un vocabolo, se non vado errato “caccavelle”, che sembra avere una certa assonanza linguistica con il nostro.
D’altro canto, del tutto imprevedibilmente, ho scoperto una pagina di storia della medicina molto interessante perché Plinio il Vecchio raccontava di aver curato e guarito con un estratto di rosa selvatica un soldato affetto da gravissima patologia: la malattia virale che, secoli più tardi, sarebbe stata riconosciuta come “rabbia” trasmessa, come è noto, dai cani e per cui, verosimilmente, era stato prezioso l’effetto decontratturante muscolare di quella elementare terapia. Lo storico romano fu il primo a denominare la pianta “cinorrodo”, dal greco “χυνοσ ρόδον”, “cane rosa” o meglio, in inglese, “dog rose” e di qui l’attributo di “canina”; al contrario, secondo una diversa corrente di pensiero, l’aggettivo deriverebbe dalla rassomiglianza dell’arbusto spinoso con la dentatura dei cani.
In ogni caso, anche se volessi farlo, non sarei in grado di descrivere le sue numerose proprietà benefiche e mi limito, perciò, a citarne quella più importante: l’estrema ricchezza in vitamina “C” che ne giustifica l’impiego come preziosa alleata del benessere generale per l’organismo. Preferisco dedicarmi alla meno conosciuta fase di fioritura della pianta ricordando che nel linguaggio dei fiori, se da un lato le rose esprimono delicatezza e piacere, dall’altro sono spesso indice di sofferenza; un’antica leggenda vuole che l’incorreggibile dio del vino, Bacco, rincorrendo una ninfa di cui si era invaghito, l’avesse fatta inciampare in un cespuglio raggiungendola: e fu così che esso si trasformò in una pianta dai fiori delicati, color rosa, come il volto della sua amata: la rosa canina appunto.
Come appena detto, anche in questa storia non poteva mancare un riferimento mitologico ma stentavo a credere che ce ne fossero tanti anche di carattere letterario; del resto, come ho pure appreso, la rosa canina è uno dei simboli stessi della poesia e mi dispiace aver sempre ignorato che, nella raccolta chiamata “Myricae”, ce n’è una di Giovanni Pascoli intitolata “Rosa di Macchia” che recita così:
“Rosa di macchia, che dall’irta rama
ridi non vista a quella montanina,
che stornellando passa e che ti chiama
rosa canina;
se sottil mano i fiori tuoi non coglie,
non ti dolere della tua fortuna:
le invidiate rose centofoglie
colgano a una a una:
al freddo sibilar del vento
che l’arse foglie a una a una stacca,
irto il rosaio dondolerà lento,
senza una bacca;
ma tu di bacche brillerai nel lutto
del grigio inverno; al rifiorir dell’anno
i fiori nuovi a qualche vizzo frutto
sorrideranno”
e te, col tempo, stupirà cresciuta quella
che all’alba svolta già leggiera col suo
stornello, e risalirà muta, forse, una sera”.
Avviandomi ora alla conclusione, sia pure rischiando di apparire irriverente, voglio fare il tentativo di semplificare questi splendidi versi traducendoli in prosa:
“Non te la prendere, rosa selvatica, se una giovane montanara
ti deride canticchiando e chiamandoti ‘rosa canina’
E non dispiacerti se non raccoglie i tuoi fiori, ma quelli
delle altre rose: è una fortuna per te che se li portino via tutti
Quando arriverà la stagione invernale e il vento farà cadere una
ad una le foglie secche, il rosaio dondolerà tristemente:
senza neppure una bacca
Al contrario, nel grigiore dell’inverno, brilleranno le tue bacche;
e con la primavera saranno i tuoi nuovi fiori e qualche frutto,
magari un po’ appassito, a sorridere
E ti farà piacere che forse una sera, meravigliata e
silenziosa, ripasserà per ammirarti la stessa giovane montanara”.
Se ne può dedurre che, nonostante il loro innegabile fascino, molte delle varietà più classiche e famose di rosa non possano neppure paragonarsi alla bellezza dei cespugli di rosa canina: sebbene molti, specie durante la loro fioritura, non sembrino degnarli neppure di uno sguardo; a tale proposito è davvero incredibile che esista la cosiddetta “Rosa di Hildesheim” che cresce dietro l’abside della cattedrale in questa città della Germania. Si tratta della pianta di rosa canina più antica del mondo, forse di oltre 700 anni, alta circa 10 metri e considerata dall’UNESCO, già nel 1985, patrimonio dell’umanità.
Avviandomi infine alla conclusione mi è parso quanto mai opportuno, oltre che di grande attualità, il richiamo a non farci sedurre dalle cose appariscenti ma effimere disprezzando, invece, quelle apparentemente modeste ma più durature; intanto, mentre si riaccende la mia nostalgia, ho l’impressione di sognare ad occhi aperti e di trovarmi ancora lungo i sentieri a Capracotta. Riaffiora, così, il ricordo di tutte le piccole-grandi meraviglie naturali che essi sembrano custodire ancor più silenziosamente del passato: dalle fragoline di bosco ai lamponi, dalle more di rovo all’uva spina ma non dimenticando, naturalmente, gli altri magnifici fiori di montagna e il loro inestimabile tesoro.
Aldo Trotta