Sant’Aldo: l’antico, saggio eremita di cui porto il nome

Ancora una volta ho avuto prova che mi serve uno spunto occasionale per ricordare o riflettere e in questi giorni è stato il 10 gennaio, ricorrenza del mio onomastico, a fornirmelo; il mio nome infatti, Aldo, non è molto diffuso attualmente e mi ha fatto sorridere il commento di uno dei cari amici, mio omonimo compagno di università, che ha cercato di darmene una spiegazione. L’origine del termine, mi diceva, è longobarda perché “ald” significa “vecchio”, che è poi diventato “alt” per i tedeschi e “old” per gli anglosassoni; al giorno d’oggi, infatti, in cui si tende a esorcizzare la vecchiaia, come avrebbe potuto il nostro nome mantenere la sua popolarità? Proprio considerando, anzi, la sua radice dai Longobardi cui forse si deve la stessa origine di Capracotta, è incomprensibile che sia un nome così poco conosciuto e utilizzato nella nostra zona; è significativo, peraltro, che io lo abbia ereditato dal nonno materno, nato in Emilia-Romagna e che purtroppo, non ho avuto la gioia di conoscere, mentre sono davvero pochissimi quelli della mia generazione a portarlo.  

Così, rispondendo agli amici e ai conoscenti che hanno avuto la bontà di inviarmi gli auguri di buon onomastico, ho ricordato loro un antico proverbio dialettale che recita:

“A Sandɘ viècchiɘ nɘ nz’appiccianɘ chiù cannèlɘ

 (a un Santo vecchio non si devono più accendere delle candele),

un modo scherzoso per dire che più si diventa vecchi e meno ci si dovrebbero attendere degli auguri; pensavo inoltre che, se presa alla lettera, questa regola dovrebbe valere a maggior ragione per sant’Aldo, già “vecchio” per definizione oltre che antico, ma l’amico che citavo è parso sorpreso che a Capracotta, di cui conosce la storia, non vi sia traccia di devozione per lui; né, d’altro canto, può essere una giustificazione il fatto che il nome Aldo sia stato riconosciuto come proprio abbastanza di recente. In passato, infatti, rappresentava spesso il diminutivo di altri nomi piuttosto noti come Arnaldo, Ubaldo, Teobaldo, Rinaldo, ecc.  

   “Di sant’Aldo si conosce ben poco perché ignoriamo perfino la sede e la data della sua nascita e, quando si vuol determinare l’epoca in cui visse, si parla genericamente del secolo VIII°; un dato sicuro è il luogo di sepoltura, a Pavia. Un’antica tradizione ce lo presenta come carbonaio ed eremita nel paese di Carbonara e si ritiene pure sia stato monaco a Bobbio, nel famoso monastero fondato nel 614 da san Colombano che, solo in parte, si ispirava alle regole dettate un secolo prima da san Benedetto; i suoi monaci irlandesi, infatti, non conducevano una vita eremitica in senso stretto perché ognuno si costruiva la propria capanna per isolarsi in solitaria contemplazione nelle ore dedicate alla preghiera. Poi ne usciva con gli attrezzi da lavoro per recarsi alle consuete occupazioni giornaliere e guadagnarsi da vivere. Possiamo quindi ritenere sant’Aldo un felice connubio tra lo spirito benedettino e quello introdotto dai fervidi missionari provenienti dall’Irlanda” (Piero Bargellini).

Sono così tornato mentalmente alle antiche tradizioni di Capracotta e, in particolare, al duro lavoro di tanti boscaioli e carbonai che, per secoli, ha caratterizzato il nostro paese; e non sembri irriverente che io consideri questi nostri antenati come singolari figure di eremiti laici che forse, sia pure inconsapevolmente, seguivano anch’essi una regola monastica. Di recente ho provato grande emozione quando in paese, a beneficio dei più giovani, è stata ricostruita fedelmente una delle capanne di legno utilizzate nei boschi dai vecchi carbonai: che io credo, nella loro evangelica semplicità, riproducessero in tutto e per tutto un antico eremo; chi di noi non conosce quello utilizzato per tanti anni dal capracottese Gaetano Fiadino sotto le rocce di San Luca?

Sfido chiunque a dubitare che le giornate di questi nostri compaesani fossero, in fondo, diverse da quelle di un eremita; essi vivevano, infatti, isolati dal mondo e da ogni contesto sociale per molti mesi dell’anno sorvegliando pure, notte e giorno, le carbonaie, quelle che in dialetto venivano chiamate “catozze”. Ma è pur vero, d’altro canto, che il loro lavoro si svolgeva anche altrove, in un contesto, per così dire, più sociale; e non c’è alcun dubbio che, proprio come nelle immagini popolari di sant’Aldo, le loro mani fossero incallite e il viso sempre annerito dalla fuliggine.   

Così, riflettendo alla parola greca ”Έρημος” che significa “Deserto”, ho ricordato un articolo di Enzo Bianchi pubblicato sul quotidiano “Avvenire” nel 2008 che si intitolava Eremiti oggi., il fascino imperituro del deserto; infatti, per quanto possa apparire incredibile, la vita ascetica ha fatto la sua ricomparsa in tempi recenti sotto diverse forme: da quella classica del solitario che si ritira in un luogo appartato, all’eremitismourbano vissuto lavorando e pregando nel deserto delle nostre città. Il “deserto” si rivela, ancora oggi, una categoria spirituale più che geografica o fisica: ritirarsi in disparte, non condividere il modo di pensare e di agire della maggioranza; attenzione, però, a pensare che gli eremiti di oggi corrispondano all’idea che da sempre fa parte dell’immaginario collettivo: esseri solitari coi capelli rasati, la barba lunga e il saio rattoppato, nello sfondo di una grotta o di un antico eremo collocato su un dirupo o sulla più aspra delle montagne. Sono queste le ragioni per cui la Chiesa non ha potuto e non può trascurare l’urgenza di una nuova e più dettagliata codificazione della forma di vita ascetica: che ne contempli, ne promuova e ne agevoli le molteplici accezioni e di tutto ciò si è parlato anche in un recente convegno che gli eremiti italiani hanno tenuto presso il santuario di Castelpetroso, nel nostro Molise.

Tornando al mio, ormai desueto nome di Battesimo, la ricorrenza dell’onomastico mi ha nuovamente condotto a riflettere sulla mia condizione di vita attuale: che, purtroppo, è molto lontana da quella che avevo immaginato per quando avessi concluso la mia attività lavorativa; e, sebbene molti lo abbiano considerato un assurdo, ho sofferto molto di non aver potuto assecondare la mia personale esigenza di “deserto”: che, nella mia idea, non poteva che iniziare con il ritorno definitivo nel mio luogo di origine, tra le mie radici montanare. A tale proposito i miei congiunti e quanti mi sono vicini non hanno mai dubitato della mia buona fede quando dicevo che sarei stato felice se avessi potuto continuare a vivere in quella vera oasi di pace rappresentata dal minuscolo appartamento adiacente il santuario della Madonna, a Capracotta; mi ero sempre illuso, infatti, che quello potesse essere l’eremo” della mia vecchiaia, in cui avrei finalmente onorato sia il nome che l’esempio di sant’Aldo e invece, con grande dispiacere, ho dovuto prendere atto di aver sempre inseguito una chimera.

Perciò, all’inizio di un nuovo anno che si aggiunge alla mia già venerabile età, non posso che rivolgermi con fiducia al santo Protettore di cui porto il nome: affinché mi aiuti ad accettare il silenzio e la solitudine di un “eremo cittadino” assai diverso, purtroppo, da quello che avevo sempre vagheggiato.

Aldo Trotta