Rua da Saudade, Lisbona. Foto: Francesco Di Rienzo
Ho riflettuto in molte occasioni, specie negli ultimi anni, alla nostalgia che spesso si rivela articolarmente dolorosa nel mio animo, come certamente lo è stata per tanti concittadini di Capracotta: in modo particolare per coloro che, con enorme dispiacere, erano stati costretti a emigrare oltreoceano. Ho cercato più volte, sia pure da inesperto psicologo, di analizzare questo arcano sentimento il cui profilo affiora mirabilmente dalle pagine del libro “A’ la Mèreca”, contenente la storia di molti nostri emigranti”. Ho raccontato infatti della loro tristezza sebbene, incredibilmente, anch’io fossi riuscito a intravedere nelle loro storie una componente gioiosa che ho anzi sperato di implementare: specie da quando sono arrivato a definire la mia nostalgia “una variante capracottese della saudade portoghese”; vale anzi la pena di ripetere che questa parola indica ciò che proviamo ricordando un luogo del cuore in cui sappiamo di non poter tornare ma che, in realtà, esprime un concetto assai più articolato.
Per comprenderne meglio l’essenza, possiamo dire che la nostalgia è rivolta al passato, la saudade è rivolta al passato, al presente e al futuro di cui, sebbene possa restare incerto, fa presagire la gioia; e mi piace, a proposito, tornare alla bella definizione del musicista brasiliano Gilberto Gil:
“la saudade è la presenza di un’assenza, un No che diventa un Sì, un’oscurità che dà luce, una visione dell’invisibile, una capsula che si chiude lasciando intravedere, con una serie di paradossi, uno strano sentimento che infonde piacere e sofferenza al tempo stesso”.
La maggior parte degli accademici è convinta che il termine derivi dal latino solitate (solitudine) e che solo in seguito sia stato influenzato dalla parola portoghese “saudar” (salutare), per poi giungere a noi nella forma attuale; ma…non sarei sincero se dicessi che riesco a fruire della sua componente gioiosa perché, mio malgrado, sono tanti i momenti di sconforto che rasentano talora, come ho già detto, la “depressione”; senza ora rimanere invischiato in questi pensieri, mi dispiaceva che non ci fosse una parola, né in italiano né in altre lingue, in grado di tradurre quella portoghese di saudade. A maggior ragione mi aveva deluso il fatto che, anche e soprattutto nel dialetto capracottese, non ci fosse un vocabolo capace di esprimere questo sentimento; solo in questo periodo, in cui è stata ricordata la scomparsa del cantautore napoletano Pino Daniele, ho appreso di un suo un album, “Nero a metà” del 1980, che contiene una canzone intitolata “Appucundria”. E ho scoperto che sarebbe proprio questo il termine che maggiormente si avvicina a quello di “saudade”; dal punto di vista etimologico la parola “Ipocondria” deriva dai termini greci ὑπο (sotto) e χόνδρος (cartilagine) che, alla lettera, vorrebbe dire “dolore addominale, sotto il diaframma”. Esso, invece, nel linguaggio medico significa reazione ansiosa di allarme relativa alla propria salute, organicamente infondata, ma che talora può assumere i caratteri di una malattia psichiatrica.
Mi sono così rammentato di aver spesso ascoltato, anche a Capracotta, la parola “Pɘcundriia” che al contrario, nel gergo comune e soprattutto in quello letterario, identifica una forma più o meno grave di nostalgia a sfondo malinconico; ho letto perciò con attenzione il componimento del cantautore napoletano estrapolandone un verso che, ad essere sincero, mi è parso un po’ intriso di nostalgia patologica:
“…Appucundria ‘e chi è sazio
e dice ca è diuno…”
(…Malinconia di chi è sazio e dice che è digiuno…).
È innegabile comunque, anche riflettendo a lungo, che sia proprio la nostra parola “pɘcundriia” a rassomigliare maggiormente a quella di “saudade”: di cui è significativo che sia stata la musica popolare a fornirne la definizione più corretta, specie ricordando le sue connessioni storiche e culturali con il “Fado portoghese” (destino) e la famosa cantante Amália Rodrigues. Del resto, come avevo ricordato, è quanto mai significativo che a Lisbona ci sia una stradina chiamata “Rua da Saudade”.
A tale proposito, ho provato a cercare altre argomentazioni e non sorprende che anche alcuni brani del cantautore genovese Fabrizio De André siano stati ritenuti ispirati alla saudade; ad esempio la canzone “D’ä mæ Riva” (Dalla mia riva):
“…e sun chi a miä
tréi camixe de vellûu
dui cuverte u mandurlin
e ‘n cämà de legnu dûu…”
(“…e son qui a guardare
tre camicie di velluto
due coperte e il mandolino
e un calamaio di legno duro…).
E mi pare superfluo sottolineare la profonda commozione che trapela da queste parole, pur così difficili da comprendere in dialetto genovese: soprattutto la tristezza di tante donne e mogli che in passato, proprio come a Capracotta, preparavano il baule da viaggio per i loro mariti in procinto di emigrare; negli stessi versi tuttavia, quasi paradossalmente, non è poi difficile intravedere motivi di consolazione e di speranza per il futuro.
Tornando ora alle mie riflessioni, mi assale il timore che sia parso velleitario il tentativo di paragonare la saudade alla pɘcundriia intesa nel suo significato più corrente: specie considerando l’assoluta peculiarità dell’animo portoghese, soprattutto degli uomini di mare, ma resto personalmente convinto che le analogie siano più numerose di quanto si potrebbe immaginare. In ogni caso, non posso che fare voti affinché l’andirivieni capriccioso della mia nostalgia, (o della mia pɘcundriia?) non si trasformi in una vera sindrome depressiva.
Aldo Trotta