L’eterno incantesimo della mia vecchia casa | Amici di Capracotta

L’eterno incantesimo della mia vecchia casa

Temo che già il titolo di questo racconto suggerisca l’ennesima riflessione sulla mia grande nostalgia per il paese in cui sono vissuto da ragazzo, Capracotta; mi piacerebbe tuttavia, almeno per una volta, essere smentito e tanto più avendo riconosciuto che il mio, in realtà, non è il rimpianto per un luogo ma per la felice, irripetibile stagione che mi era stata regalata.

Non posso negare che, nell’ultima occasione di soggiorno in paese, l’emozione sia stata ancor più intensa del solito e penso che ciò sia dipeso dalla gioia particolare di sentirmi nella mia casa paterna, quella in cui sono nato quasi 82 anni or sono; in altri termini è stato come se, idealizzando quel vecchio edificio, non lo avessi considerato una semplice abitazione, ma un vero e proprio “rifugio dell’anima”

Ha forse contribuito l’arcano silenzio di questa stagione invernale ed anche, certamente, l’esiguo numero attuale di residenti ma non mi era mai capitato di riflettere alle caratteristiche strutturali di quell’edificio più che centenario; pare infatti incredibile, ma sul suo portone di ingresso è incisa nella pietra la data della sua costruzione, 1907.

Mi piace ricordare, inoltre, che era stato uno dei pochissimi pressoché risparmiati dalla distruzione bellica del 1943 perché, come molti ricorderanno e come mia madre aveva scritto, per la sua professione di ostetrica condotta era stato provvisoriamente trasformato in un piccolo “ospedale da campo”: l’unico, indispensabile intervento di ricostruzione dopo la guerra, infatti, aveva riguardato l’angolo sinistro del tetto e la soffitta sottostante.

Si tratta comunque di una casa abbastanza grande pur sembrando composta, guardando la facciata anteriore, da due soli livelli più il sottotetto; in quella posteriore invece, che segue il profilo scosceso del terreno, i livelli sono quattro e così, disponendo di ben 10 vani abitabili e simmetricamente

disposti, più altri due nel semiinterrato e due ancora al piano terra sul retro, era stata in grado di ospitare, oltre alla mia famiglia, anche quelle degli zii.

Tornando all’ultimo mio breve soggiorno, ero seduto in quella che un tempo era una disadorna soffitta e che ora è stata trasformata in un’accogliente mansarda; così, rivolgendo istintivamente lo sguardo verso l’alto, ho avuto l’impressione di rivedere le grosse travi di legno cui mio padre Ottaviano aveva ancorato una bellissima altalena: quella in cui mi cullavo da bambino e che aveva pure suggerito il titolo del mio libro, “l’Altalena dei Ricordi”.

Scendendo poi lungo la scala, mi sono accostato alla finestra del primo pianerottolo e ho nuovamente provato grande emozione perché mi pareva di risentire il cigolio della carrucola esterna utilizzata per la provvista annuale di legna da ardere; giunto poi a livello del mio appartamento, ho considerato che al massimo avrei potuto proseguire fino a quello sottostante. Infatti negli anni ’80 del secolo scorso, oltre al rifacimento del tetto, erano state necessarie importanti modifiche per rendere indipendenti le diverse unità immobiliari e l’interruzione della scala equivaleva, pertanto, a una barriera invalicabile; ciò nonostante, solo virtualmente, ho voluto proseguire per sostare poi più in basso, in  corrispondenza del terzo livello;  di quest’ultimo venivano utilizzati come camere da letto i due soli ambienti illuminati da una finestra, mentre gli altri due, semiinterrati e quasi del tutto oscuri, erano impiegati come deposito per le derrate alimentari. Uno di essi prendeva il simpatico nome di “patanaro”, un termine derivato dalla parola dialettale “patàne” che significa appunto “patate” e sorprendeva moltissimo che, insieme al grano e ad altri cereali, si potessero conservare per tutto l’inverno; siamo ora abituati a vederle germogliare prestissimo e non c’erano, allora, i moderni refrigeratori; in quell’ antica casa, invece, c’era un luogo fresco davvero ideale, per di più sempre asciutto e riparato da fonti di luce e di calore: era appunto il patanaro che, oltre tutto, appariva molto suggestivo con  la sua parete di fondo, quasi interamente ricavata nella roccia.

Proseguendo ora nel mio immaginario percorso, il pensiero è andato ai due locali posteriori della casa a pian terreno, forse i più amati quando ero bambino; il loro appellativo dialettale era “stalloni” nel significato di grosse “stalle” perché in effetti, per tanti anni, erano stati utilizzati come ricovero per gli animali domestici; in quello di sinistra la zia Michela custodiva, tenendoli opportunamente separati, una capretta e un maialino mentre, dal piccolo ambiente sottoscala, aveva ricavato un pollaio per le galline; sul muro esterno anzi, ci sono tuttora i segni di una porticina rotonda, allora chiamata “gattarola”, attraverso cui i polli e soprattutto il gatto, potevano uscire e rientrare a piacimento.

Raggiungendola infine dalla gradinata esterna, ho provato molta esitazione prima di entrare nella stalla sulla destra, che ora è semplicemente una cantina-deposito di cui sono comproprietario insieme a mio cugino Ezio; temevo infatti che ne sarei uscito deluso ben conoscendone l’attuale, imperdonabile disordine che vi regna attualmente: con diversi antichi mobili da rottamare, cumuli di suppellettili dismesse e tanto altro.

Per fortuna mi hanno soccorso gli “occhi del cuore” perché, cancellando mentalmente tutto ciò, l’unica immagine che mi hanno restituito è stata quella della vecchia mangiatoia e del mansueto asinello dello zio Antonio: proprio quello che tante volte, da bambino, mi aveva tenuto in groppa.

Sempre commosso infine, ma sereno, sono ripartito: essendo certo che non cesserà l’incantesimo della vecchia casa di Capracotta.

Aldo Trotta