I cavalieri della tormenta | Amici di Capracotta

I cavalieri della tormenta

Emanuele Paglione con la sua giumenta durante la nevicata del marzo del 1956

La sera del 10 febbraio arrivò a Campobasso un montanaro che cavalcava una giumenta baia. Entrò in città dalla porta soprana; percorse al passo le strade del centro; e andò a fermarsi davanti al palazzo delle Poste. Aveva certamente più di 60 anni. Ma questo lo si capì dopo, quando scese da cavallo. Finché era rimasto in sella, nessuno avrebbe potuto indovinare la sua età, la sua condizione, la sua provenienza perché il lungo mantello nel quale era avvolto gli copriva anche la punta del naso; e la tesa di un cappellaccio di feltro, calcato fino alle orecchie, gli nascondeva il resto del viso. Il cavaliere intabarrato veniva da uno dei paesi dell’Alto Molise che erano rimasti isolati, per la neve. Era Emmanuele Paglione, procaccia di Capracotta. Nelle bisacce, legate dietro la sella, casella posta.

Gli erano corsi incontro 3 o 4 commessi che, dal loro ufficio, lo avevano visto scendere da cavallo, togliersi di dosso il mantello, stenderlo sulla groppa della giumenta.

Il procaccia era il primo che fosse giunto dalle valli dell’Alto Molise Dopo la grande nevicata.

Ma non era molto loquace, purtroppo.

Raccontava che, per uscire di casa, la gente di Capracotta doveva salire al primo piano, talvolta al secondo e passare dalla finestra; che quasi nessuno, tentava quell’impresa perché la tormenta soffiava, senza sosta, da una settimana, e la temperatura oscillava tra i 20 e 25 gradi sotto lo zero; che i lupi spinti dalla fame, entravano ogni a ogni notte in paese.

Gli uomini di Capracotta si erano messi subito al lavoro, per scavare Un corridoio lungo la strada che scende a Valle. Ma alla prima svolta, lo spazzaneve ero rimasto incagliato tra due bianche muraglie, alte più di 6 metri, dure come il ghiaccio.

Non era stato più possibile smuoverlo di là.

«Così ho dovuto sellare la cavalla e mettermi in cammino – aveva detto il procaccia. – Ho impiegato 11 ore, per arrivare a Campobasso. E poteva andare anche peggio».

Ma ad imporgli di affrontare quel rischio non erano stati, certo, i regolamenti dell’amministrazione delle Poste.

Ora dirò perché «aveva dovuto» sellare la giumenta e mettersi in cammino.

Perché a Capracotta (tra la Maiella e il Gran Sasso, a 1420 metri di altezza altitudine) è avvenuto tante volte che la neve si è giunta quasi al livello delle grondaie,  ma non è mai accaduto che sia trascorsa un’intera settimana senza che arrivassero la corrispondenza e i giornali, da Campobasso.

Fin dal tempo in cui le lettere si chiudevano con l’ostia. Ed è stato sempre un Paglione a garantire quel servizio.

Il Governo borbonico, quando aveva i messo i primi francobolli, aveva affidato le messaggerie postali di Capracotta ad un conducente di muli che si chiamava Giacomo Paglione e gli aveva imposto come condizione che avrebbe dovuto provvedere al trasporto dei plichi,  al massimo, ogni 5 giorni, in ogni stagione, con qualsiasi tempo, a qualunque costo.

Non lo aveva fatto per una paterna preoccupazione; ma perché il servizio postale era una novità che non ispirava troppa fiducia e bisognava convincere la gente che i due baiocchi del bollo non erano una tassa per i gonzi; che la corrispondenza affrancata arrivava, davvero, anche nei paesi di montagna e nel cuore dell’inverno.

Giacomo Paglione non aveva mancato una volta all’impegno solennemente assunto. Poi, col trascorrere degli anni erano mutate tante cose I pastori avevano preso confidenza col francobollo;  il Mastro di Posta era diventato Ministro; il Regno delle Due Sicilie era scomparso; erano nate la raccomandata con ricevuta di ritorno e la busta con la scritta via aerea ripetuta in tre lingue.

Ma tutti i Paglione che, di padre in figlio, erano diventati procaccia di Capracotta avevano continuato a rispettare il termine massimo di 5 giorni, come un impegno sacro, come un punto d’onore.

Il figlio di Giacomo aveva venduto i muli ed era diventato postiglione; il pronipote si era sbarazzato della diligenza ed aveva imparato a guidare l’autocorriera. Ma non aveva demolito la stalla. Non si può certo chiedere in prestito la giumenta del vicino, per portare la posta a Campobasso, in un giorno di tormenta. Non arriverebbe a valle.

Pensate a questo fatto stupefacente; un cavallo che scende per la china di un monte, e deve reggere l’uomo ed il carico su così piccoli zoccoli, camminando sulla neve alta tre metri.

Come può non affondare? Certo, un cavallo qualunque guidato da un cavaliere qualunque sprofonderebbe sino al collo, dopo 10 passi. Ma la giumenta baia di Emmanuele figlia, e nipote di cavalli che fecero infinite volte quel tragitto, e il procaccia di Capracotta, figlio e nipote di procaccia e di postiglioni, sanno dove conviene mettere il piede. Vedono dov’è «la neve che porta». Capracotta è un paese ventoso; la bora e la tramontana prendono d’infilata la valle del Sangro e vanno a battere con violenza contro quel monte; sollevano la neve in un punto, sino a lasciare il terreno quasi spoglio; l’ammucchiano e la pressano in un altro. Un’esperienza antica guida la cavalcata attraverso questi pieni e questi vuoti che nessun altro saprebbe individuare; è l’itinerario non è mai lo stesso. Le orme disegnano strani ghirigori. Non vi salti la testa di seguirle; dove, un quarto d’ora fa, è passata la giumenta baia, voi, adesso, potreste sprofondare.

Il più celebre dei Paglione fu il secondo Giacomo della dinastia: il padre dell’attuale procaccia. Gli capitò una lunga serie di inverni terribili; ma rispettoso sempre l’impegno che suo nonno aveva firmato con l’amministrazione borbonica.

Ogni due giorni, se il tempo era buono, o al massimo ogni cinque, se c’era burrasca, chiudeva nelle tasche della sella i plichi «speciali», dai grandi sigilli di  ceralacca rossa; metteva la corrispondenza ordinaria nella bisaccia; e partiva.

In tutta la sua vita non fece altro che trasportare i sacchi a strisce rosse dell’ufficio postale; ma seppe farlo in maniera eroica.

Per questo, quarant’anni fa, gli decretarono la medaglia d’argento al valor civile.

Andò il ministro  delle Poste a portargliela; e tutti gli italiani si commossero. Poi non si parlò più di Giacomo Paglione. Morì di polmonite nel dicembre del 1935 per aver dato il mantello ad un giovanotto che saliva al paese con lui e si lamentava per il freddo.

Qualche anno fa sembrò che la tradizione fosse finita. Capracotta durante la guerra era stata per due terzi distrutta. Il paese era evacuato. Ma nell’inverno del 1944, che fu uno dei più rigidi che si ricordino, una cinquantina di persone aveva già fatto ritorno e si era trovata la situazione drammatica. Il procaccia e le sue la sua giumenta erano ancora «sfollati» in un villaggio della pianura pugliese. Si era dovuto lanciare i viveri e le coperte col paracadute. I corrispondenti di guerra americani avevano organizzato una spedizione di soccorso; ogni giorno telegrafavano lunghi resoconti ai loro giornali; e, forse, avevano calcato un po’ la mano. Da noi, naturalmente, non si era saputo con quanta emozione fosse stata seguita, negli Stati Uniti, quella vicenda.

La guerra era finita da qualche mese quando, dall’America era arrivata una lettera per il municipio di Capracotta. Era del sindaco di New Jersey. Diceva che con la somma raccolta suo tempo nella sua città, a favore di Capracotta, aveva comprato uno spazzaneve, del tipo che si usa nell’ Alaska; e chiedeva se dovesse farlo sbarcare a Napoli o a Bari.  Sembrava uno scherzo. Invece l’«Alaska Clipper» arrivò davvero. È appunto quello spazzaneve che restò incagliato sulla strada di Campobasso, la mattina dell’otto febbraio: forse il più potente che esista in Italia. Quando era giunto in paese, quelli di Capracotta si erano un po’ inorgogliti. Domandavano al procaccia: «È vero che hai venduto la tua giumenta?»  Emmanuele Paglione non l’aveva venduta allora; non la venderà nemmeno adesso che l’«Alaska clipper»  è stato disincagliato.

Anzi prima dell’estate la porterà sino ad Alfedena per sposarla ad uno stallone che discende da un’altra illustre dinastia di cavalli da neve. Perché tra qualche anno, ci sarà probabilmente un Paglione che piloterà l’elicottero della linea Roma-Capracotta; ed anche lui vorrà avere un cavallo, nella stalla del suo paese. Non un cavallo qualunque. Un cavallo che sappia dove mettere i piedi se capitasse, un giorno, di dovergli mettere in groppa la sella e le bisacce di pelle di capra, per portare i sacchi della posta a Campobasso. 

Tommaso Besozzi

Fonte: T. Besozzi, I cavalieri della tormenta, Il Giorno, 24 aprile 1956