Ancora una volta il periodo che precede una ricorrenza importante come quella della prossima santa Pasqua, è il più favorevole per me alla riflessione: che si addice particolarmente, oltre tutto, al significato spirituale della Quaresima che stiamo vivendo; in ogni caso stavo cominciando ad accarezzare l’idea di trascorrerne i giorni festivi nel mio luogo di nascita, a Capracotta: proprio come ero riuscito a fare, dopo tanti anni, a Natale scorso.
Al contrario, come spesso accade, i sogni muoiono all’alba perché improvvisamente, senza alcun evento traumatico, sono andato incontro a un blocco articolare doloroso del ginocchio sinistro di cui è in corso la valutazione clinica e strumentale ma che, in ogni caso, mi impedirà di assecondare il desiderio che citavo.
Superfluo che ricordi la proverbiale insofferenza per i piccoli o i grandi disagi che, inevitabilmente, hanno costellato la mia vita tanto da rendermi spesso insoddisfatto della mia condizione: senza dubbio, invece, privilegiata rispetto a quella di tantissime altre persone in Italia e nel mondo. Confesso, tuttavia, di essermi sentito particolarmente smarrito sperimentando, per la prima volta, di essere…un invalido cui serve aiuto per muoversi: nulla di più sconfortante se, malauguratamente, si trattasse di un impedimento duraturo.
Ho ripensato, così, alla professione di medico ospedaliero che ho esercitato per tanti anni e che speravo mi avesse insegnato a fronteggiare meglio il dolore e la disabilità: tanto più considerando la mia singolare rassomiglianza, in questo momento, con moltissimi pazienti che ho avuto in cura; a maggior ragione per il fatto che buona parte del mio lavoro, come reumatologo, è stata dedicata alle patologie non chirurgiche dell’apparato locomotore. Sono tante, infatti, le occasioni in cui ho ricordato la famosa leggenda di Androclo, narrata dallo scrittore romano Aulo Gellio il quale fece in modo che un leone, sofferente per una grossa spina conficcatasi nella zampa, si lasciasse curare tranquillamente, restando del tutto inoffensivo; proprio come tanti malati che si affidavano a me per le più diverse manovre invasive e dolorose, mentre io non potevo che ammirarne la forza d’animo e, soprattutto, la loro incredibile fiducia nei miei confronti.
Non è casuale infatti che sulla parete dell’ambulatorio, in ospedale, io avessi collocato il poster con quella fantastica storia che anch’io ora, rovesciandone i ruoli, sarei tenuto a impersonare: ma, pur sperando che mi assista il più degno seguace di Androclo, non sono certo di sapermi dimostrare altrettanto…paziente del leone, che pure è il simbolo del mio segno zodiacale.
Così, come per un preciso segnale o forse per pura coincidenza, in questi giorni mi è capitato di riascoltare in televisione la celebre canzone di Franco Battiato intitolata “La Cura”: un brano che, secondo me, riassume le regole del corretto rapporto medico-paziente: tanto più al giorno d’oggi, nel concreto rischio di vederle molto disattese. A mio giudizio sarebbe paradossale che, a fronte del progresso incredibile nella ricerca scientifica e negli standard di cura, si perdesse di vista l’aspetto umano della medicina; è stato infine inevitabile, tornando alle premesse, che io rileggessi diversi, illuminati commenti del testo di Battiato: di cui è solo apparente l’utopia quando sembra pretendere di oltrepassare i confini stessi nella medicina; in altre parole ci rendiamo certamente conto che è impossibile “guarire tutte le malattie”, ma la vera sfida da superare è quella di restare accanto alle persone sofferenti.
Un famoso, attualissimo aforisma di Patch Adams ricorda:
“Se si cura una malattia, si vince o si perde. Se si
cura una persona, vi garantisco, si vince sempre”.
È ora certamente superfluo che riporti testualmente le parole, così famose di quella canzone, certamente meravigliosa anche nella parte musicale; basta infatti il suo ritornello a farcene comprendere il significato:
“… supererò le correnti gravitazionali,
lo spazio e la luce per non farti invecchiare
e guarirai da tutte le malattie;
perché sei un essere speciale
ed io, avrò cura di te
Io sì, che avrò cura di te”.
Rischiando infine di apparire immodesto, spero di poter dire che, sia pure con tanti errori e debolezze, ho sempre cercato di onorare questo impegno: rivolto idealmente non tanto e non solo alla numerosa schiera di amici e parenti che ho curato e neppure a mia moglie e mio fratello scomparsi di recente, ma anche e soprattutto a tutte le persone, quegli “esseri speciali” che hanno valorizzato la mia professione.
Aldo Trotta