Non sono un esperto infettivologo ma, da medico, subisco il fascino della storia della medicina anche per quanto riguarda degli eventi così drammatici come l’epidemia di peste che si verificò nel 1656 nell’allora Vicereame di Napoli e, in particolare, a Capracotta. Prima di entrare nel merito, devo necessariamente fare un cenno sulla malattia altrimenti rischiamo di non capire la reale portata di quello che è successo nella nostra cittadina quattro secoli fa. In quell’anno, in soli quaranta giorni, sono morte 1126 persone su 1800: ne sono sopravvissute soltanto 674. Luigi Campanelli, il cultore di storia locale che riporta la notizia nel suo libro “Il territorio di Capracotta” del 1931, dice che prima dell’epidemia c’erano in paese 280 fuochi, cioè famiglie, composti mediamente da sette persone. Dopo la peste, i fuochi si erano ridotti a 150, composti mediamente da appena quattro persone.
Il bacillo della peste è stato scoperto da Alessandro Yersin. Tant’è vero che porta il suo nome: Yersinia Pestis. Questo studioso svizzero di lingua francese, in verità, gli aveva dato il nome di “pasteurella pestis” in onore dello scienziato Louis Pasteur che era stato il primo a realizzare il vaccino per il vaiolo. Tornando a Yersin, ha vissuto per gran parte della sua attività scientifica in Indocina, dove ha scoperto il batterio della peste. Era l’anno 1894. Pensate a quante epidemie di peste erano capitate nei secoli precedenti senza che si conoscesse qual era l’agente infettante. Dovranno passare diversi altri decenni per arrivare alla scoperta di antibiotici, in fondo piuttosto banali, con i quali le moderne piccole epidemie di peste, come quella della Tanzania del 2006, sono state efficacemente combattute. Una curiosità su Yersin: quest’illustre personaggio, per una strana coincidenza, è morto nell’anno 1943 quando, cioè, Capracotta è stata distrutta dalle truppe tedesche in ritirata.
Per tornare alla peste, vi ricordo che il termine “pestilenza” è in passato entrato nell’uso corrente per indicare qualsiasi epidemia di gravi condizioni morbose. Perciò, non sappiamo effettivamente quante volte si sia trattato realmente di peste con riferimento alle numerose epidemie della storia. Per quanto riguarda quella del 1656, ne siamo sicuri perché è stato possibile individuare il dna del batterio patogeno dalla polpa di denti non erotti delle persone decedute durante questa epidemia. Della peste, ne parlano già gli Egizi duemila anni prima di Cristo. La storiografica ci tramanda una epidemia peste, cosiddetta “di Atene”, avvenuta in Grecia durante la Guerra del Peloponneso (431- 404 a.C.). Per arrivare in tempi più recenti, la cosiddetta Peste Nera ha ucciso tra il 1347 e il 1353 almeno un terzo della popolazione del nostro continente.
Come si trasmette? Il batterio della peste è un germe abbastanza comune che, per alcuni aspetti, assomiglia al più noto e famoso Eschelichia coli. Infatti, ci sono specie di Yersinia molto meno patogene come, per esempio, la Yersinia enterocolitica che provoca una banale diarrea o un reumatismo reattivo da Yersinia. Ma la Yersinia pestis è un bacillo cattivo e viene trasmesso dalle pulci dei topi. In tempo di epidemia, però, la trasmissione può avvenire da uomo a uomo: possono essere vettori anche le pulci umane e i pidocchi. Conosciamo due forme sostanziali di peste: la peste bubbonica e quella polmonare. Nella peste bubbonica, i linfonodi inguinali e ascellari degli ammalati andavano incontro a un’adenite suppurativa che poi fistolizzava. Le persone che riuscivano a guarire, lo facevano con esiti cicatriziali al livello dei bubboni. La forma più grave era quella polmonare. Si trasmetteva facilmente anche per via aerea: tosse, starnuti, vomito, ecc. È chiaro che anche la peste bubbonica poteva, in alcune persone defedate, comportarsi come una setticemia: con uno shock settico, un impegno renale, cardiaco, ecc.
Per quanto riguarda l’epidemia del 1656 a Capracotta, una dato è importante: nel periodo che va dal 4 agosto al 13 settembre sono morte 1126 persone. Il primo deceduto è un certo Giovan Battista Di Nuccio che si era ammalato nelle vicinanze e, involontariamente, aveva contagiato i suoi concittadini. L’ultima vittima della peste si chiama Isidoro Mosca. Si narra del gran elogio pubblico del vescovo di Trivento, Giovanni Battista Ferrucci, nei confronti dell’arciprete Carfagna che era riuscito a garantire a tutti i defunti per il morbo una sepoltura cristiana. Si parla anche di un suo aiutante, Francesco Di Nuccio, che, secondo alcune fonti, sembra che si fosse ammalato gravissimamente di peste. Studi recenti hanno accertato che, alla fine, si è salvato. Immaginate cosa significa che, nel giro di appena 40 giorni, scompaiono 1126 su 1800? Pensate che l’intera contrada della Macchia è stata completamente desolata da quel drammatico evento: sono morti tutti i suoi abitanti.
Purtroppo, non sono riuscito a trovare una connessione qui a Capracotta tra la peste e il culto di san Rocco, che è il più noto santo protettore contro questa malattia. Vicino casa mia c’è la “Rufa di san Rocco”. Quando ero bambino si diceva: sott’ a san Rocco. È probabile che da quelle parti ci sia stato un lazzaretto. Lancio questo appello alle persone che possono recepirlo: vediamo se troviamo delle connessioni storiche in questo senso. Anche se non credo che sia facile.
Aldo Trotta