Non appena la neve lasciava il posto all’erba ed il tempo lo permetteva, ogni anno riappariva come d’incanto il capraio: con il capace ombrellone da pastore in spalla, i gambali di cuoio e un corno dal suono rauco e caratteristico.
Non ricordo il suo nome; mi meravigliavo già allora che fosse tanto bravo e capace da tenere a bada e controllare oltre trecento bizzose capre mentre io impazzivo letteralmente a controllarne solo una!
Le conduceva al pascolo e le riconsegnava sane e salve ai proprietari. Ogni capra portava al collo una campanellina; quando passava la mandria, un irripetibile concerto si spandeva nell’aria, tra belati latrati, urla e suoni.
Il periodo del pascolo durava fino ai primi rigori invernali e la Uardata (la Guardata) e Monte Capraro erano le zone che venivano più sfruttate.
Quando mi trovavo a Colle Curnacchia (Colle Cornacchia), dove mio padre con una folta squadra di operai spaccava le pietre, guardavo per ore le agili capre che saltavano e pascolavano tra i dirupi senza mai cadere.
…
Ben presto ogni mattina, il suono del corno avvisava che era il momento di condurre la capra alla vianova (strada rotabile); il nostro punto di raccolta era alla fine della mulattiera sotto la Chiesa: un bel tratto di ripida salita dalla Fundeione e non sempre riuscivo a stare dietro alla nostra agile capra.
Nel tardo pomeriggio, lo stesso suono avvisava tutti, me compreso, che era ora di andare a riprendere in consegna la propria capra. Inevitabilmente ero sempre in ritardo e immancabilmente quella capra maledetta, invece di prendere spontaneamente la strada per la Fundeione (che del resto conosceva benissimo), si dirigeva a grandi balzi verso l’orto de Ze Lurite de Curdische (Zio Vit’Antonio chiamato Loreto, fratello del mio bisnonno).
Al solo tentativo di avvicinamento, si levavano alte le urla e le imprecazioni de Ze Lurite o in sua assenza de Zia Chécca (moglie di Zio Loreto)!
E meno male che la capra non faceva mai in tempo ad entrare nell’orto delle meraviglie, altrimenti avrei preso botte da tutti.
Ogni tanto, qualche gratuita bastonata alla capra, mi ripagava di tanto fastidio; odiavo tutte le capre e in particolare quella capra perché interrompeva sempre sul più bello i miei giochi, perché comunque dovevo andarla a prendere a la vianova, con pioggia, sole o vento.
Quando però, un anno, dopo un paio di giorni di inspiegabile mancanza di vivacità, la capra morì, mi accorsi della sua enorme importanza nell’economia di famiglia. Era d’inverno e vidi il volto di mia madre rigato dalle lacrime: pianse sommessamente. Papà, senza allarmare nessuno, corse ad avvisare dell’accaduto Zi E’rriche la Chianghèra (La chianga era la macelleria; in questo caso di Zio Enrico Carnevale) che nottetempo venne, infilò la capra in un capace sacco e se la caricò sulle spalle; certamente la mattina dopo la vendette per carne fresca nel suo macello.
Vennero a mancare fino a primavera la tazza di latte mattutina, la zuppa di pane e latte che spesso era la nostra cena e il capretto.
Ma come in una storia infinita, morta una capra papà ne comprò un’altra e la lotta ricominciò tale e quale; si fece strada nella mia mente di bambino che, nonostante l’utilità, l’unico motivo serio di vita delle capre fosse quello di rendermi la vita difficile, di approfittare della mia assenza per tentare una sortita nell’orto proibito de Ze Lurite.
Domenico Di Nucci
Dal volume “I Fiori del Paradiso”