Un bosco del Gargano
Tra il 1962 ed il 1963 una famiglia di industriali boschivi di Capracotta, con sede a Serracapriola (FG), a capo della quale vi era Gaetano Carnevale (Cardiglie), si aggiudicò l’appalto per il taglio di un bosco, denominato “La Piccirella” sperduto sul Gargano, in territorio tra i comuni di San Nicandro Garganico e San Marco in Lamis. I lavori furono affidati alla ditta boschiva dei fratelli Francesco (Ciccione) e Domenico (Minguccio) De Renzis, anch’essi capracottesi. Agli inizi dell’autunno del 1962 iniziarono i lavori di taglio e di trasferimento dei tronchi a valle. Quale capomacchia era stato designato Giacomo Paglione (Nigghione), soprannominato anche Giacomone. Gli operai addetti al taglio ed alla trasformazione della legna in carbone erano “i cervinaresi”, tutti provenienti da Cervinara (Av).
Al trasporto a valle dei tronchi di legna fu incaricata altra famiglia di mulattieri capracottesi, i Carnevale (Cucarone), composta da Luigi (Gigino) e Sebastiano (Pacciano), con cui lavoravano i loro parenti Salvatore Venditti (Tore de “la cioppa) con i figli Agostino (Ustine) e Carmine. Mentre i cervinaresi alloggiavano in baracche di legno poste più vicino al bosco da tagliare, tutti i capracottesi avevano avuto la fortuna di occupare una piccola masseria molto isolata, posta su un crinale dal quale si ammirava tutto il territorio più in basso, ma in ogni caso molto distante dalle altre masseria più a valle, tutte abitate da famiglie di allevatori, ma anche e soprattutto da personaggi non proprio stinchi di santo. I nostri compaesani avrebbero trascorso tutta la invernata lì ed avrebbero fatto ritorno a Capracotta non prima del mese di maggio dell’anno successivo. Si lavorava incessantemente dall’alba al tramonto, con la consapevolezza che si era nel cuore di un territorio sul quale regnava – e regna ancora- la mafia garganica, a quell’epoca ancora dedita prevalentemente al furto del bestiame, ma non di rado anche agli omicidi. I capracottesi, più particolarmente i mulattieri, prestavano molta attenzione ai loro animali, temendo che di notte potessero essere rubati. Sta di fatto che i nostri compaesani dovevano necessariamente trovare la maniera di vivere quanto più possibile in tranquillità con il territorio e con quelli che vi dettavano (la loro) legge. I carbonai, da sempre avevano escogitato il mezzo che consentiva, a loro stessi, ma anche ai “padroni” della montagna garganica, di vivere e di convivere, senza mai allacciare rapporti di amicizia e senza scambiarsi troppe confidenze.
Infatti, i capracottesi sapevano che gli abitanti del Gargano avevano la impellente necessità di approvvigionarsi di legna e di carbonella, indispensabili per cucinare e per riscaldare le masserie, come anche non potevano fare a meno di fornire le loro capre del prezioso nutrimento costituito dal sottobosco rimasto dopo il taglio degli alberi più grandi. Allora, i nostri compaesani, in cambio di tranquillità lasciavano ai pugliesi, affinché li trasformassero in carbonella, i rami più piccoli tagliati dagli alberi, ma tolleravano anche – attività vietata dalla legge – l’ingresso delle capre nel bosco per la pulizia del sottobosco quando erano certi che non sarebbero arrivati controlli dalla Guardia Forestale. Erano, questi, atti di gentilezza che riscuotevano un certo rispetto da parte dei garganici.
Intanto, si avvicinava la Pasqua del 1963 e un giorno, approfittando della venuta da Capracotta in Puglia di Minguccio De Renzis con il camion per un carico di carbone, si presentò all’accampamento dei capracottesi, dopo avere fatto un bel tratto di bosco a piedi dalla strada carrabile a valle, Marietta Ianiro (Cucarone), moglie di Tore de “la cioppa”, madre di Agostino e Carmine e zia di Gigino e Pacciano Cucarone. Sarebbe rimasta lì per la Pasqua.
Proprio in quel periodo si era verificato, ai danni di un allevatore che abitava più a valle, un grave furto di 40 capre, le quali avevano da poco partorito un esercito di capretti, destinati nel giro di un mese ad essere venduti e macellati per imbandire le mense pasquali. Si era sparsa la voce del fatto delittuoso ed anche della disperazione del capraio derubato e della sua famiglia, sia per la perdita della capre adulte, ma anche e soprattutto per la sorte capretti appena nati, i quali, non potendo essere allattati erano destinati tutti a morire di fame. Il povero capraio non chiese aiuto agli altri allevatori pugliesi, ma salì a piedi fino all’accampamento dei boscaioli capracottesi e, prostrandosi, chiese loro di aiutarlo, perché, fece capire loro, denominati “I Bbruzzis” (gli abruzzesi), che non avendo essi mai avuto discussioni né contrasti con i capi del territorio, ma anzi erano ben visti e rispettati da questi, erano gli unici che lo avrebbero potuto aiutare a recuperare le capre e a salvare i capretti. Se ciò non fosse stato possibile, ne sarebbe seguita la fine, sua e di tutta la sua famiglia. Gli uomini del bosco ascoltarono impressionati il lamento e la supplica di quell’uomo, ma risposero che non immaginavano chi potesse stato l’autore del grave e crudele fatto e che, quindi, non sapevano in che modo avrebbero potuto aiutarlo. Marietta, appena arrivata da Capracotta, rimase fortemente turbata dal racconto dell’uomo, ma non proferì una sola parola. Dopo che il capraio se ne fu andato deluso e affranto, i boscaioli durante la cena affrontarono di nuovo discorso, consultandosi su chi potesse essere stato, tra quei pochi che passavano più spesso vicino alla masseria dei capracottesi, il mandante e responsabile di quel grave fatto, oppure quello che li avrebbe potuti aiutare a risolvere il problema. Intanto Marietta ascoltava gli uomini e memorizzava la descrizione delle sembianze di quelli che li avrebbe potuti aiutare. La donna non chiuse occhio per tutta la notte. La mattina, dopo che quasi tutti gli uomini se ne erano andati al bosco, lei continuò ad avere in mente quello che aveva loro raccontato il povero capraio. Ad una certa ora, ai confini della staccionata della masseria passò un uomo, che la guardò, forse meravigliato che in quel posto sperduto potesse essere giunta anche una donna. Gigino sussurrò a Marietta che quell’uomo era uno di quelli che si contendevano il territorio. La donna si fece coraggio, salutò il pugliese presentandosi come la moglie di Tore il mulattiere. Gli raccontò, nel nostro dialetto di essere venuta da Capracotta per trascorrere la Pasqua con il marito, con i figli e con i nipoti, ma che il giorno prima aveva avuto la triste e dolorosa notizia che ad un capraio che abitava più a valle erano state rubate tutte le capre, i cui capretti rischiavano di morire di fame perché non potevano essere allattati: «Signuria ‘te può ‘mmaggenà ca ‘ss‘a ‘na criiatura innocende appena nata vè tolda la mamma, la criiatura ze more pecchè armanisce senza latte e senza amore. Io so na povera femmena, ma Signuria ira fa caccosa pe salvà re crapitt, m’era fa sta ggriazia a me che so mamma; re Patraterne te l‘arrenn (la tua Signoria può immaginare che se ad una creatura innocente appena nata viene tolta la mamma, la creatura muore perché priva di latte e di amore. Io non sono altro che una povera donna, ma la tua Signoria deve fare qualcosa per salvare i capretti, questa grazia la devi fare a me personalmente che sono madre; il Padreterno te ne renderà merito!)». L’uomo pugliese, in un primo momento, forse infastidito dal fatto che una donna, peraltro venuta da lontano, potesse averlo affrontato ed avergli rivolto la parola, le rispose seccamente di non sapere nulla del furto delle capre e che, in ogni caso, non avrebbe potuto fare nulla per aiutarla. La donna, nonostante Gigino la invitasse a non essere troppo insistente, non si diede per vinta e, sempre con rispetto, ma anche con decisione, supplicò nuovamente l’uomo sconosciuto affinché si adoperasse per ottenere la liberazione delle capre rubate. Ad un certo punto l’uomo dovette apprezzare la sconosciuta donna di Capracotta per avere avuto il grande coraggio di presentarsi a lui, temuto ed inavvicinabile dagli abitanti del luogo ma anche dai boscaioli e dai mulattieri, tanto che, mutando il tono della voce, indicò alla donna un tortuoso sentiero che conduceva in territorio di Carpino, sempre nel Gargano, fino ad luogo ove vi era una caverna, individuabile perché l’ingresso era celato da folti rami di lucìna (pianta selvatica simile all’ulivo). All’interno della caverna sarebbero state ritrovate le capre rubate, meno una, sgozzata per il nutrimento degli uomini che le avevano rubate. Poi l’uomo andò via. Allora qualcuno dei capracottesi corse a valle per informare del tutto il capraio, il quale, solo grazie alla grande sensibilità, alla bontà, al coraggio e alla forza di animo di Marietta di Cucarone, si precipitò nel luogo descritto e ritrovò le capre, meno quella sacrificata, riportandole ai loro capretti. Solo successivamente i nostri compaesani ebbero modo di apprendere che il furto delle capre, di per sé “fisiologico” in quei luoghi, era stato però caratterizzato dalla particolare crudeltà, in capo a chi aveva ordinato il delitto, di lasciare intenzionalmente morire di fame tutti i capretti, così da portare alla completa rovina la famiglia del capraio, per ritorsione e vendetta verso il figlio giovane di quest’ultimo, ritenuto colpevole di una grave mancanza di rispetto verso un membro della malavita del Gargano.
Serafino Trotta
P.S. Il fatto appena scritto mi è stato raccontato da Giuseppe (Peppino) Venditti, figlio di Marietta Ianiro, detta Cucarone.