Foto scattata in via N. Falconi, davanti le abitazioni Battista e Di Nardo. Dopo l’uccisione e le pulizie esterne il maiale viene trasportato altrove, sulla graticola, per le ulteriori procedure di eviscerazione, smezzamento e suddivisione. Oltre alla solita frotta di ragazzi, a partire da destra: Giuseppe Sozio (Pɘppaiòla, Giuseppe Venditti (de Ugèniɘ), Enrico Carnevale (Muschittɘ), Italo Di Rienzo (Braciola), Giuseppe Santilli (la Cavuta) ? Per terra un sottile strato di neve bagnata. (Foto Ezio Trotta – circa anno 1955).
Una straordinaria foto inviatami da zio Ezio (Ing. Trotta) mi ha improvvisamente riportato con la mente all’ahimè molto lontano periodo, quello dell’infanzia.
Ricordo che nel mese di dicembre, prima del Natale, tutti i giorni, più volte al giorno, impressionanti grida quasi umane laceravano l’aria; erano quelle dei maiali che ogni famiglia, dopo averli allevati ed ingrassati, procedeva poi ad uccidere per farne salsicce, prosciutti e tutto ciò che sarebbe poi servito per superare l’inverno.
Era una programmata, cruenta e straziante esecuzione voluta dall’uomo per la sua sopravvivenza e che non prevedeva sopravvissuti: “mors tua, vita mea!”.
Il maiale, ritenuto uno degli animali più intelligenti al mondo, è stato per numerosi secoli, e fino a circa venti anni fa, vittima di un cerimoniale “feroce” per la sua uccisione, alla quale assisteva consapevole ed impotente.
Il barbarico rito aveva inizio con l’arrivo del macellaio il quale, con uno straccio che avvolgeva coltelli di diversa foggia e misura, portato sotto l’ascella a mò di borsa portadocumenti, ed in mano un bastone con uncino appuntito all’estremità, faceva cenno ai 3-4 volontari aiutanti, già presenti sul posto, di tenersi pronti.
Dopodiché avvicinatosi alla povera bestia, con mossa rapida e precisa, la agganciava con l’uncino sotto il mento e la trascinava con forza, aiutato dagli astanti, fino a sollevarlo e distenderlo su una tinozza capovolta; nel frattempo l’animale, con gli occhi sbarrati e pieni di terrore diffondeva le sue strazianti grida nell’aria. Mentre veniva immobilizzato e tenuto a fatica, un rapido e preciso colpo di coltello al collo, dritto alla giugulare, provocava la fuoriuscita di un getto di sangue che andava man mano affievolendosi fino a dissanguare completamente il maiale il quale, in preda a gemiti e sussulti, finalmente cessava di soffrire.
La scena era talmente frequente da non suscitare nei confronti della povera ed innocente vittima, sentimenti di pietà o di compassione, nemmeno in chi lo aveva per mesi amorevolmente nutrito. Noi bambini eravamo talmente abituati ad assistere a queste esecuzioni che accorrevamo e ci affollavamo intorno ai carnefici, attenti a cogliere ogni momento della scena che rivedo ancora oggi come in un film.
Concluso il sacrificio, si procedeva alla depilazione del maiale che veniva poi messo su una graticola e bruciacchiato per una superficiale igienizzazione; con un coltello corto e largo veniva successivamente decorticato e lavato con getti di acqua bollente. Venivano strappate le unghie (le “scarpette”) e succedeva spesso che per burla una “scarpetta” finisse in tasca a qualche bambino.
La cerimonia proseguiva con la messa a nudo dei tendini delle zampe posteriori, sotto i quali veniva inserito un bastone di legno sagomato, simile ad una gruccia per attaccapanni (r’ uammɘgliérɘ), che permetteva di sollevare l’animale con un paranco verso il soffitto; in questa posizione veniva eviscerato, smezzato (tagliato a metà longitudinalmente, dopo aver pronunciato la formula di rito “E salutɘ!”) ed infine suddiviso.
Nulla del povero maiale veniva sprecato o gettato: le setole servivano per fare pennelli da barba, spazzolini e dono ai calzolai che li mettevano sulle punte dello spago per cucire le scarpe; perfino le unghie potevano servire a fare i bottoni e le ossa spolpate per fare il sapone.
La legge impone attualmente, prima dell’uccisione, lo stordimento del maiale con un colpo di pistola a proiettile retrattile che, penetrato nel cranio, lo rende all’istante incosciente ed insensibile. Non si odono più fortunatamente quelle strazianti grida di un tempo, tutto si svolge in maniera più civile, stavo quasi per dire più umana!
Oggi quelle grida non si odono più ma sono ancora vive nei lontani ricordi dell’infanzia.
Vincenzino Di Nardo