Al centro, in primo piano, Lucia di Milione. Fotografia: Cav. Giovanni Paglione
Da Via Carfagna scendiamo alla “Rufa di Milione”.
Qui troviamo Lucia con la mamma Marosa e la sorella Irene.
La loro casa consisteva in un povero cucinino con le pareti annerite dal fumo e un paio di stanzette col soffitto e il pavimento a travature di legno con quattro tavole inchiodate sopra, sempre traballanti. Irene aveva adibito a sala – così diceva lei – una delle camere, quella del fratello Fiore e del nipotino Emilio, che avevano lasciato tragicamente la vita fra i peri e i carpini fasciati d’edera della Difesa.
Nelle giornate d’inverno – così lunghe per lei – mentre Irene accudiva alle faccende di casa, Lucia, se non era in chiesa alle funzioni o in casa dei vicini, se ne stava accanto al fuoco, mezza imbarbogita. Ai lavori domestici era riluttante, perché essa non era fatta per la casa. Il suo ambiente, il suo humus, per così dire, era la campagna. Alle prime avvisaglie della primavera non la trattenevi più. Si preparava e correva a fare un sopralluogo. Esplorato il terreno, cominciava le sortite quotidiane in cerca delle primizie che la campagna, ormai risorta, le poteva offrire. Si metteva un pezzo di pane, quando c’era, nel fazzolettone e se ne andava.
Pasqualino il fornaio spesso la vedeva passare di buon’ora e quando s’accorgeva che Lucia era a secco, le faceva segno di entrare. Come per una tacita intesa, essa prendeva il fazzolettone per una cocca e lo scrollava. Sorridendo Pasqualino provvedeva. E Lucia andava.
Veniva prima il turno delle cicorie e delle casselle dal sapore forte e amarognolo, poi dei teneri boccarossi, dei tanni, dei cicorioni; più tardi c’erano le fragole, i lamponi, i funghi, specialmente i funghi. Conosceva tutte le fungaie degne di questo nome, e tutte le specialità. I preferiti erano i prataioli con il loro cappello bianco lucente e le lamelle marrone, che sapevano di sole, di aria, di prati verdi.
Un giorno la incontravano sopra alla Piana del Monte, un altro giorno alle Matasse nere, un altro alla Valrapina in cerca di fiori di camomilla e di malvone.
A sera tornava stanca ma con un’aria di contentezza diffusa sul volto abbronzato, e andava nelle case ad offrire, per qualche soldo o per qualche cosa in natura, le sue raccolte del giorno.
Quando l’amica natura, stanca di donare a Lucia di Milione le sue cose, si preparava al sonno invernale, l’infaticabile cercatrice le strappava, tra sbuffi di vento e scrosci di pioggia, rametti di agrifoglio e di vischio per il presepio dei bimbi.
Una mattina Lucia, Irene e Marosa se ne andarono per ceppe su a Monte Campo. Nel fazzolettone non c’era niente perché la madia era vuota. Fecero il loro bel fascio, se lo misero sul capo e presero a scendere. Lucia si lamentava per i crampi allo stomaco. Giù a Santa Lucia, buttò il fascio e sconfinò nel primo terreno coltivato a patate, a portata di… piedi, e ne fece una grembiulata. Appena a casa, lessarono le patate e le mangiarono; uno stimolo per l’appetito di Lucia, che riprese a lamentarsi.
“Roba rubata non ha mai saziato” esclamò allora Marosa e, preso lo scialle, corse dai proprietari del campo invaso. “Sono venuta a confessarmi”, disse e raccontò tutto e finalmente si sentì l’anima leggera. Quelli, gran brava gente, si dettero pena e vollero che Marosa accettasse del pane e le dissero che se ripassavano vicino al loro terreno, potevano cogliersi, senza complimenti, le patate che volevano.
Venne anche per Lucia di Milione la stagione del riposo. Stanca, piena di acciacchi, seduta accanto al grande camino, nero di dentro e di fuori, sognava le verdi radure dietro alla Selletta, i lamponi rosso-vino sopra alle Macerie, le fungaie delle Coste della Cerreta, ricche di prataioli.
Domenico D’Andrea
Fonte: D. D’Andrea, Sul filo della memoria, D’Andrea SpA, Milano, 2016