Claudio Esposito riceve il premio dal comandante provinciale dei carabinieri di Isernia Davide Milano
Stringevo forte al mio petto come l’ultimo regalo della mia infanzia la bambola che ritrovai schiacciata sotto le macerie. Sentivo ancora intorno a me la puzza delle bombe e la polvere che mi copriva tutta la mia scarna fanciullezza devastata, sbranata, incontaminata da questa maledetta guerra. Anche se era ancora autunno, nell’aria già si preannunciava l’ingresso dell’inverno che sicuramente avrebbe peggiorato di male in peggio la mia “fragile” salute. Camminavo senza badare che i miei piedi erano talmente stanchi di calpestare, continuamente, i miei pensieri azzannati dalla ferocità di una bomba nonostante la terra mi bruciava tutta. Anche il cielo si rifiutava di guardarmi.
Anche lui come me aveva smesso di giocare perché non credeva più nella bontà degli uomini. Anche lui come me osservava lo strazio che si respirava sulla terra. Anche il cuore non mi parlava più dall’ultima volta che gli avevo confidato che non avevo più tempo per colloquiare con lui. I miei pensieri li affidavo ad una bambola di pezza perché almeno lei mi capiva e non provava il
significato della parola “dolore” che fa parte solo negli esseri umani. Io la immaginavo come una piccola fatina che ogni notte veniva e mi cullava per alleviare il rumore assordante delle bombe e le grida della gente che mi riportavano, nuovamente, alla cruda realtà. La chiamavo, la imploravo, la stringevo fino ad attutire i miei singhiozzi e le mie lacrime che andavano giù da sole. Che ci potevo fare se mi veniva da piangere! (A volte penso che piangere fa bene perché manda via una parte malinconica, malata, sofferente del tuo essere, perciò, sfogo tutt’ora con il pianto). […] Mi asciugavo gli occhi per nascondere la mia fragilità. Mi sentivo anch’io come una bambola di pezza. Mi sentivo anch’io come lei schiacciata dal peso delle macerie. Però lei a differenza mia è più fortunata. Lei almeno è fatta di pezza! Non sente dolori, frustrazioni, non piange, non mangia e neanche dorme. Beata lei! Magari fossi stata anch’io una piccola bambola! Almeno “non sentivo” e soprattutto “non vedevo” l’orrore che mi gironzolava intorno! E poi non è sola. Qualcuno/a si prende cura di lei. E poi la cosa più importante era che non sentiva il freddo e non soffriva di geloni ai piedi e alle mani. E non parliamo dei capelli che non avevano più colore, forma e infastiditi dal continuo prurito della polvere che cadeva come fiocchi di neve in tutte le ore della giornata. Mi sembrava di vivere in un luogo che non aveva né nome e né odore, perché tutto era stato ricoperto, seppellito, bruciato, cancellato dalla guerra. A volte mi sentivo anch’io “fredda e dura” come le pietre del mio paese a forza di ricordare quello che purtroppo ho vissuto proprio sulla mia pelle. Questa pelle che oggi ha tracciato, setacciato, scavato la mia strada e calcolato i miei sogni dispersi in un labirinto che ho faticato a trovare la via d’uscita. Sono trascorsi molti anni, troppi, direi.
Quindi… anche la mia bambola di pezza ha la mia stessa età. A guardarla ora mi viene da ridere.
Vederla lì addormentata tra i ricordi di quel lontano 1943.
Infatti… proprio il… 1943.
Ah! Quanti anni!
Ricordo come se fosse ieri quando la liberai da quella montagna di pietre. Mi ricordo che mi facevano male le mani a furia di scavare. Era quasi notte e il buio non mi faceva affatto paura, anzi, ci convivevo da quando tutto ebbe inizio a Capracotta. Ricordo che quelle rare volte che il cielo era pulito e sereno, mi divertivo a guardare con il naso all’insù le stelle che mi riempivano di quella gioia infinita che solo loro ti sanno dare nel loro massimo splendore. Io cercavo in tutti i modi di scappare da quell’orrore. Mi sentivo addosso il peso della pioggia e i pezzi di miliardi di detriti saltare furiosamente da una parte all’altra come i grilli. Faceva molto freddo. Molto freddo che non riuscivo nemmeno a muovere le dita dei piedi e delle mani già minate dal gelo dei giorni scorsi. Il mio unico pensiero era quello di scappare da quell’inferno. Invece di cercare un riparo, sprecavo il mio tempo per una cosa che sicuramente non avrebbe gioito il dolore che più passava il tempo e più seminava, tanto ma tanto, atrocità e morte. Non so se è stato il coraggio!? Purtroppo, non ricordo, dove e quando ho trovato la forza di non demordere, la volontà di continuare a sperare che non ti succedeva niente di serio. Anzi, sforzavo al massimo che potevo i miei poveri cinque sensi pur di non cadere anch’io vittima innocente di una sporca e letale bomba. Mi sforzavo pur di salvare la mia unica amica e compagna di viaggio, per modo dire, perché questo non è stato affatto un viaggio. Ah! Quanti ricordi, ma tanti ricordi che… mi viene il mal di testa. Il classico mal di testa che in giornate come queste non vuole andare proprio via dalla tua vita. Io ricordo che da bambina soffrivo spesso di mal di testa a causa del rumore assordante delle bombe. Ricordo che correvo come una matta, di qua e di là, senza sosta, scappavo più di tutti, scappavo a tal punto che mi sembrava di volare. Ritornando al discorso della bambola di pezza, mi ricordo che ero felicissima, anzi, di più perché finalmente avevo ritrovato la mia unica amica. Infatti non piangevo più. Non avevo più paura delle strane ombre di notte. Non gridavo più. Non avevo più paura di rimanere, appunto, da sola in quell’inferno. Gestivo le mie emozioni, le mie speranze, i miei sogni pur di mantenere viva dentro di me la grinta di guardare avanti. Pregavo perché era l’unico modo per sperare che tutto questo, prima o poi, finiva… ma quando?! Spesso… mi domandavo a malincuore. «Grazie che sei qui con me! Ti ringrazio che mi fai compagnia! Grazie! Ti voglio bene». Stringevo forte al mio petto la mia piccola bambola di pezza, seduta per terra davanti al camino con gli stracci lacerati e sporcati del grembiulino rosa e bianco regalato da mia madre. Grazie! E finivo per addormentarmi da sola in compagnia della bambola di pezza, infatti, proprio come ho detto, con la bambola di pezza al posto di una carezza o di una calda coperta, (sfruttando un tantino la mia immaginazione), dopodiché, chiudevo gli occhi per troppa stanchezza. Il giorno seguente mi svegliavo tutta infreddolita. Infatti non smettevo di tremare per il troppo freddo non dimenticando dello stomaco che brontolava per la fame e per la sete di affrontare un’altra “dura” giornata. Il mio primo pensiero era per la bambola. Immediatamente mi alzavo dal pavimento e subito le confidavo qualcosa di me. La prima cosa che facevo prima di iniziare il nostro confidenziale colloquio, la pettinavo delicatamente le sue trecce che erano simili alle mie, curandola nei minimi dettagli, prima di uscire a respirare l’aria fresca di prima mattina. Il mio pensiero subito andava ad annidarsi alle cose più difficili che dovevo affrontare contro la mia volontà, però, c’era lei la mia bambola di pezza che mi distoglieva da tutti i mali del mondo. Qualsiasi rumore strano, anche minimo, subito mi allarmavo. Alcune volte potevo anche esagerare, ma in certe situazioni la paura fa la sua parte. Sentire anche un semplice sbadiglio, oppure, una persiana sbattere che subito scappavo veloce come una gazzella. Non ci credete, ma avevo l’udito super sviluppato, riuscivo a sentire qualsiasi cosa da catturare la mia attenzione. Perciò dormivo poco. Mangiavo poco e dialogavo molto con la mia bambola di pezza. Sono sincera. Parlare con lei mi rendeva più forte. Sembrava che mi ascoltava quando le dicevo che avevo paura della guerra. Ahimè! Ho la sensazione di aver detto troppe cose orribili di me, della mia infanzia, di quello che ho vissuto in prima persona, cancellando una buona parte della mia vita passata per non ricordare. Non mi basta un foglio bianco e una penna per scrivere questa storia. Non mi basta nemmeno una pila infiniti di fogli ingialliti. Desidero soltanto che queste storie non si dimenticano mai. Infatti non si dimenticano mai, come non si dimenticano mai le speranze che ho raccontato io stessa e non mi vergogno affatto, alla mia amica-bambola di pezza. Quando ho nostalgia del passato vado nella camera dei miei ricordi, apro la scatola e una volta che prendo in mano la mia bambola di pezza, subito mi passa quel malumore. Mi emoziona ogni volta che la guardo. Mi tremano le mani, la voce e riprovo la stessa sensazione che ho vissuto quando lo portata fuori da quell’ammasso di sassi. Ancora sono visibili i segni stampati di una guerra passata come sono visibili, incancellabili come sempre anche dentro la mia memoria che non vanno mai via. Mi piace ogni tanto chiudere gli occhi per stuzzicare la mia immaginazione, un modo per tenere sempre in allenamento me e la mia instancabile “memoria” per trascrivere su carta vergata le pagine di una lunga storia fatta di reciproco affetto, di amicizia, di dolore, di tenerezza, di conversazione, di angoscia, di confessione e di… e niente più… !?! […] Infatti… niente più!!!
Scrivere… la parola… “fine”… ?! E’ un dilemma!? Dopo questo… non aggiungo… altro…!?!
Claudio Esposito