Un maiale, appena ucciso, viene trasportato sulla graticola per le procedure di eviscerazione, smezzamento e suddivisione. Foto: Ezio Trotta (circa anno 1955).
È caduta la prima neve. Il General Bianco, dopo aver buttato l’assedio, non soddisfatto, si accinge a stringere in una morsa di freddo e ghiaccio il paesello. I capracottesi, dal canto loro, non si lasciano cogliere impreparati: le provviste per l’invernata sono ben riposte e pronte per l’abbisogna.
La secolare sfida, pur riproponendosi ogni anno, ha sempre visto, seppur “decimati”, vincere i capracottesi. Essi sanno bene che questo è solo l’inizio e che dopo Novembre c’è “la neve de deciembre che métte re diénde” e poi c’è “Jennare e jennarone che scopa paglieare, cuatenare e quascione!”.
Insomma, pur non disdegnando la neve, necessaria per le sorgenti e fonte di gioia per gli sportivi ed operatori economici, i paesani, stanno sempre all’erta, anche perché: “tiembe de vierne e cure de criature nen può sctà meà secure!”.
E quando fa freddo, solitamente, si mangia un po’ più grasso e il pensiero sovente volge alla carne di maiale. Eh, sì, questa “dispensa ambulante”, per secoli, ha rappresentato l’arma migliore, per i capracottesi, per difendersi dai lunghi e rigidi inverni. Del maiale (allora!) non si scartava nulla: il sangue si mangiava cotto o, più tardi, addolcito con zucchero, cacao, cannella e altro, si trasformava in “sanguinaccio”. Prosciutti, salami, salsicce, “ventresche”, “nuoglie”, ossa, piedi e testa, venivano appesi rappresentando la quasi totalità della sua trasformazione. Dico quasi, perché un ruolo determinante era svolto dal lardo…: guai, se allora, un maiale non avesse procurato la giusta quantità di grasso (“und”), per poter soddisfare le esigenze dell’intera famiglia, che a quei tempi era abbastanza numerosa. L’olio di oliva era per pochi privilegiati ed avere “und” a sufficienza era già un lusso.
D’altronde, quando qualcuno commetteva un’azione poco “lecita” lo si apostrofava dicendogli: “pe ulija de lard’, ha miss’ re dite ‘ngul’ a re puorc’!”.
Perfino le setole venivano recuperate per il calzolaio!
Disgrazia immane era, pertanto, la morte per malattia del maiale. Essa gettava in costernazione l’intera famiglia, che già avvezza a vivere più o meno a stecchetto, passava alla “fame”!
E immaginate che invernata dovette passare quella famiglia di otto componenti, che negli anni sessanta subì la perdita dell’unica mucca che possedeva e che, morendo, di notte, si accasciò addosso al maiale, soffocandolo! Il veterinario (Don Peppe) constatò la morte e prescrisse l’interramento di entrambi gli animali, facendo sprofondare nel più totale sconforto quella povera famiglia. E comunque, quando si aveva la fortuna di ammazzare il maiale, tutti erano in festa e l’intera famiglia partecipava all’evento: al più piccolo si faceva mantenere la coda, mentre i più forti lo tenevano saldamente stretto per le zampe prima del colpo fatale, che veniva inferto dal capofamiglia o dall’esperto compare chiamato per l’occasione.
Dopo l’uccisione si puliva, si appendeva, si pesava e si apprezzava il lardo, mentre le donne, dopo aver sistemato il sangue, incominciavano a cuocere le “cèca maretra”, ovvero la carne intorno alla gola del maiale che comprende ghiandole del timo, tiroide ed emolinfoghiandole. Quest’ultime, soffriggendole a fuoco vivace “sparano”, e il marito, impaziente di attendere, ma soprattutto ingordo, nell’avvicinarsi incautamente alla padella, spesso, era vittima di quegli schizzi: da qui cèca maretra!
Pasquale Paglione