Pandemia influenzale 1918 e COVID 19: nulla di nuovo sotto il sole?

Aldo Trotta

Da vecchio medico ospedaliero, mi ha molto appassionato un recente articolo scientifico inglese dedicato, retrospettivamente, alla pandemia influenzale del 1918: ed è stato inevitabile per me riandare col pensiero alla splendida monografia, sullo stesso argomento, pubblicata nel 2019 dal compianto amico Domenico Di Nucci e dal caro collega Felice Dell’Armi: era il racconto della piccola comunità di Capracotta in quel travagliato periodo.

Mi è tornata in mente la famosa massima biblica “Nulla di nuovo sotto il sole” che sottolinea come, forse da millenni, non c’è mai un evento realmente diverso dal precedente nella storia dell’umanità: a distanza di tempo, infatti, se ne perde facilmente la memoria e ci si avvede troppo tardi di non aver fatto tesoro di tanti insegnamenti che, prima o poi, sarebbero tornati utili; in altri termini si finisce per svuotare di significato persino il saggio proverbio che recita: “Uomo avvisato è mezzo salvato”.

È quanto rischiamo anche ora pur facendo voti che, come sembra ormai certo (?), la pandemia che stiamo vivendo stia cominciando a trasformarsi in endemia; è stato ed è comunque troppo alto il suo prezzo complessivo e sono incredibilmente tante, in positivo e in negativo, le sue analogie rispetto al 1918: anche a prescindere dal ben diverso livello socio-culturale, specie in ambito di conoscenze scientifiche e di mezzi di comunicazione.

Per fortuna, essendo stati superati i 50 milioni di morti nel mondo nel 1916-18, non vi è paragone con la mortalità attuale, pur elevatissima: ma va tenuto conto, naturalmente, anche del fatto che in era preantibiotica moltissimi casi si complicavano, inevitabilmente, con una infezione batterica.

Al contrario già nella primitiva origine dei virus, allora del tutto sconosciuti, potrebbero esserci rassomiglianze stupefacenti, a cominciare dal fatto che anche in quella lontana pandemia potrebbe essere stato in gioco un ceppo di cosiddetti “hantavirus”: di cui, esattamente come nella infezione da Coronavirus, possono essere portatori i pipistrelli (?).

 Parimenti molto suggestiva è la similitudine nella via di trasmissione dei due virus anche se, rispettivamente, mediata dalle cosiddette “droplets” (goccioline respiratorie) piuttosto che veicolata da oggetti inanimati: non dimenticando, peraltro, la pur relativa protezione nei confronti del Covid 19 ottenuta dai soggetti vaccinati per l’influenza.

 Nei due eventi è stato grandissimo l’impatto complessivo e soprattutto quello sulla mortalità, delle cosiddette “false notizie”, assai meno comprensibili e giustificabili attualmente rispetto a tanti anni fa’: in particolare le pretestuose riserve, se non addirittura la combattiva ostilità. nei confronti dei vaccini; si è avuta spesso l’impressione che un secolo di progressi sia trascorso inutilmente!

Restano certamente abissali le differenze nelle modalità di lotta alle due pandemie, ma io credo che in entrambe sia innegabile la superiorità del mondo scientifico e sanitario rispetto a quello politico e gestionale: specie per quanto attiene la correttezza nell’informazione e l’onestà intellettuale e sia pure considerando, tanti anni fa, la deleteria coincidenza con la prima guerra mondiale; basta pensare, ad esempio, che molti medici di diverse nazioni, costretti loro malgrado a sottovalutare la malattia, si sforzarono di attribuirla a pazienti immaginari chiamandola persino “pseudoinfluenza” o minimizzandola con l’appellativo di “febbre spagnola”: un gigantesco falso storico!

 Ammirevoli in ogni caso i tentativi e gli sforzi messi in atto, anche all’inizio del secolo scorso, sul piano della tutela individuale e collettiva: sebbene facciano tenerezza quelle “mascherine” o quelle “barelle” e che sembrino così elementari alcune delle inchieste epidemiologiche: ineccepibilmente condotte, peraltro, anche con indagini di confronto circa l’efficacia di misure di isolamento (il moderno “lockdown”) tra città diverse; si dimostrò ad esempio, in America, che il picco di mortalità risultava estremamente più basso a Saint Louis, dove le restrizioni erano state adottate più precocemente ed in modo più scrupoloso, rispetto a Filadelfia.

A questo punto sarebbe bello ricordare le diverse, più o meno storiche intuizioni che solo di recente hanno trovato riscontro e, non di rado, una spiegazione scientifica esauriente;  per non parlare poi, del lungo e faticoso percorso fino alla scoperta e all’impiego pratico dei farmaci antivirali, dei cosiddetti “anticorpi monoclonali” o delle moderne tecnologie per i vaccini: non ne avrei  certamente la competenza né questa sarebbe l’occasione idonea per farlo;  oltre tutto, non basterebbe un intero trattato di medicina!

Per mia “deformazione professionale” tuttavia, mi piace soffermarmi su quella che io giudico la più importante acquisizione cui la pandemia del 1918 aveva aperto la strada e cioè quella relativa alla cosiddetta “Encefalite Letargica”: una patologia considerata a lungo di origine virale sconosciuta, mai annoverata come entità nosografica autonoma, ed a cui la mia famiglia ha purtroppo pagato un doloroso tributo.

Mio nonno materno infatti, che non ho conosciuto e di cui porto il nome, morì giovanissimo proprio a causa di quest’ultima malattia, iniziata subito dopo l’influenza pandemica del 1918 e durata circa sei anni con penose manifestazioni neurologiche a partire, s’intende, dalla vera e propria letargia.

Considerata per moltissimi anni il più grande mistero della medicina nel 20° secolo e descritta inizialmente dal famoso neurologo di origine greca, Constantin von Economo, era già stata prospettata l’ipotesi che fosse correlata alla stessa influenza pandemica.

Solo alla luce delle più recenti acquisizioni infatti, sembra ora provato che si trattasse di una tardiva complicanza meningoencefalitica di tipo autoimmunitario (?): analoga, per intenderci, a diversi dei quadri clinici neurologici del cosiddetto “Long COVID”, che comprende pure, insieme a tante altre manifestazioni, la ben conosciuta “anosmia” (alterazione dell’odorato) o la poliradiculoneurite di Guillain-Barré, sulle quali, naturalmente, sorvolo.

Al termine di questo mio raccontino e delle mie riflessioni mi piace augurarmi di nuovo che si cominci a intravedere “la luce in fondo al tunnel”; ma se, come molti temono, prima o poi sarà inevitabile un’altra pandemia (?) sarà vantaggiosa per tutti la memoria storica e scientifica di questi ultimi, dolorosi anni.

A conclusione, rivolgo un pensiero affettuoso ai tanti giovani colleghi, mia figlia compresa, che avevano forse un po’ dimenticato le malattie infettive ed ancor più le pandemie; mi dispiace molto, infatti, che si siano trovati improvvisamente, nascosti come antichi guerrieri nelle loro armature, a inventarsi di tutto pur di aiutare i troppi pazienti coinvolti; e mi auguro di cuore che non dimentichino mai ciò che insegna la “storia della medicina”.

In altri termini, adattando lo stesso mio titolo e giocando con le parole di Giovanni Pascoli nella poesia “L’Aquilone”, vorrei che possano sempre ripetere: “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di…antico; mi piacerebbe cioè che, a guidare il loro percorso nel presente, fossero sempre le preziose chiavi di lettura del passato.

Succederà davvero? Non posso certamente prevederlo ma, intanto, continuo ostinatamente a privilegiare “l’ottimismo della speranza rispetto al pessimismo della ragione”.

Aldo Trotta