Un’immagine di Capracotta distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale
Mi sembrava irriverente, quasi blasfemo, assimilare il titolo di questo breve racconto al brano musicale dedicato al campo di sterminio di Auschwitz; mi sono invece convinto che l’ambiente e lo stato d’animo della nostra gente negli ultimi mesi del 1943 non dovevano poi essere molto diversi da ciò che, in chiave assai più tragica, traspare nella canzone di Francesco Guccini cui ho fatto riferimento. Del resto ciò che purtroppo è avvenuto 70 anni fa a Capracotta, quasi un “olocausto minore” di cui sono stato piccolissimo protagonista, era frutto della stessa impietosa “regìa di guerra” e dispiace ripetere ancora, con il testo musicale che citavo:
“…quando sarà che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare, e il vento si poserà…?
Ed il pensiero corre spontaneo ai diversi “caduti” che anche il nostro paese ha dovuto purtroppo piangere.
C’era comunque davvero, ancora prima del solito, la neve a Capracotta in quel terribile autunno con tanto, tantissimo e strano fumo che “saliva lento” non dai comignoli, ma dalle stesse case incendiate o fatte saltare con l’esplosivo dai tedeschi: con le sue volute tragicamente mescolate al fumo innocente che il vento (la nostra “Voria”) sollevava dai piccoli fuochi di “bivacco” organizzati in fretta dalle famiglie accampate nei pochissimi luoghi risparmiati da quella inutile rappresaglia: come appunto le Chiese o il Cimitero.
Era infatti passato con la sua tromba per tutte le strade, nel suo “cappotto a ruota”, il banditore comunale (“Gildonio” che molti certamente ricordano) con l’ordine perentorio di evacuazione emanato dal comando militare tedesco e che tutti, nello sgomento e nella confusione incredibile, si erano affrettati ad eseguire: per di più senza l’aiuto di diversi tra gli uomini più giovani e validi che avevano dovuto cercarsi un nascondiglio lontano per sottrarsi al continuo rischio di rastrellamento: mio padre Ottaviano ad esempio aveva raggiunto, insieme ad alcuni parenti e amici, la località di campagna denominata “Orto Ianiro” trovandovi rifugio nell’antico “trullo di pietra a secco” (impropriamente detto “pagliaio”, tuttora esistente e di proprietà della mia famiglia.
E’ in questo scenario che anch’io, a poco più di 3 mesi essendo nato il 3 agosto, dopo essermi trovato con mia nonna materna Guglielma nel fuggi-fuggi generale del 9 settembre dalla Chiesa della Madonna all’arrivo delle truppe tedesche, ho seguito il mesto gruppo di persone che avevano preferito il Cimitero: e questa volta senza neppure l’ausilio della mia robusta “carrozzina”, ma con la certezza di una piccola cappella privata costruita anni addietro da mio nonno paterno Carmine, che purtroppo (come la nonna Cristina) non ho avuto la gioia di conoscere.
Stavo comunque rischiando quotidianamente di morire di fame dal momento che, non potendo essere alimentato al seno da mia madre e con il bestiame tutto requisito, non si riusciva a reperire alcun tipo di latte; in quel frangente così tumultuoso inoltre, era impossibile usufruire dell’aiuto prezioso di alcune “balie” (a cominciare dalla cara cugina Cecilia) che nei giorni precedenti mi avevano generosamente soccorso: e, di sicuro, non solo per gratitudine nei confronti di mia madre Cesarina, venuta da Ferrara come ostetrica condotta del comune.
Mi trovai così, secondo il preciso racconto di tutti, a disporre in esclusiva di una incredibile invenzione della nonna: una “culla” costituita dal loculo vuoto sovrastante quello occupato dalla mia sorellina maggiore, Antonietta, strappata alla mia famiglia da una malattia infettiva a soli 14 mesi nel 1942.
Suscitai così, da spettatore innocente com’ero, la reazione istintiva e quasi rabbiosa di mia madre che, tornando infreddolita e bagnata dopo aver portato di nascosto dei viveri a mio padre ed agli altri, mi trovò protetto ma piangente, in quel singolare giaciglio improvvisato.
Ho addirittura l’impressione di ascoltare quel concitato colloquio figlia-madre, che mi dispiace non saper riportare nel loro dialetto emiliano (incomprensibile per i capracottesi più di una lingua straniera), e che recitava, in linea di massima, così:
D: “Ma dove hai messo il piccolo Aldo? Vuoi far morire anche lui come Antonietta?”
R: “ti sbagli: è esattamente il contrario; sto cercando infatti di proteggerlo almeno dal freddo non potendolo aiutare per la fame e il luogo più caldo che abbiamo è il loculo in cui si trova! Forse è proprio Antonietta (che sembra sorridergli come un Angelo) a proteggerlo dal Paradiso!”
E mia madre, singhiozzando, si rabbonì: costretta persino a raccogliere un po’ di neve in una bottiglietta ed a farmela bere con un po’ di zucchero che la signora Carmela De Renzis (mamma del carissimo amico di infanzia Ezio) aveva appena lasciato per me; e sopravvissi anche a questa seconda e più minacciosa prova, cui forse devo gran parte della mia estatica “devozione” per la neve di Capracotta: in cui tuttora mi trovo piacevolmente immerso anche in sogno.
Di lì a poco, come in una favola, comparve davvero un Angelo in sembianze umane: era il valoroso sacerdote salesiano di Capracotta don Carmelo Sciullo che, non è casuale, è stato poi insignito di medaglia d’argento al valor civile per aver salvato delle persone nel salernitano durante una alluvione degli anni ’50; questo sacerdote, più che il “buon samaritano” per tutti e che abitava a poche decine di metri dal Cimitero, informò mia madre che la sua casa sarebbe stata certamente risparmiata dalla distruzione essendovi custodite (unico Tabernacolo in quel triste periodo!) le Pissidi dell’Eucaristia con il Santissimo Sacramento; così, dopo avermici condotto, mi affidò a sua madre, la signora Vincenza, che aiutò la mia a farmi cambiare al caldo i pannolini bagnati riuscendo anche a provvedere (non so in che modo) alcune preziose confezioni di “latte evaporato”.
Proseguì poi certamente qualcosa di soprannaturale perché durante la notte mia madre, scorgendo da lontano il fuoco e il fumo di una tenda alla finestra della nostra casa appena incendiata, trovò il coraggio di raggiungerla da sola nonostante il “coprifuoco”; con l’aiuto fortuito quanto prezioso poi, di un cugino di mio padre, Vincenzo Di Tanna (il burbero-benefico mugnaio che molti ricordano), riuscì a spegnere le fiamme con l’acqua ancora erogabile dalle tubature.
Solo la porzione sinistra del tetto e la camera da letto della nonna risultarono bruciate: con la legna stipata in soffitta tuttavia che, precipitando come una colata incandescente al piano sottostante, aveva distrutto ogni suppellettile e addirittura letteralmente fuso un grande letto di ottone; era rimasta intatta sulla parete solo la parte superiore di una acquasantiera di ceramica con l’immagine del Sacro Cuore, che abbiamo poi sempre custodito come reliquia di quel disastro.
Fu così che ciò che restava del nostro edificio di via Nicola Falconi, ancora sufficientemente ospitale, meritò una singolare promozione: diventò infatti un piccolo ospedale da campo, autorizzato dallo stesso comando tedesco e con tanto di Croce Rossa disegnata sul portone: mia madre infatti, indossando con fierezza un camice bianco appena recuperato, riuscì a convincere un ufficiale (con un grosso e ringhioso cane al seguito) che, oltre ad alcune persone ammalate o anziane che cercava di aiutare, una “spaventatissima” vicina di casa (Annina Potena) era già in avanzato travaglio di parto: nacque infatti, in quelle condizioni ed alla luce di un solo piccolo lume a petrolio, una bambina di nome Diomira Angelaccio (per noi tutti la cara Mirella).
Mi corre l’obbligo di ricordare che non sono mancate altre vicissitudini e/o ulteriori occasioni di grave disagio nei lunghi mesi che hanno preceduto la fine del conflitto: per di più in un inverno tra i più rigidi che si potessero ricordare, ma sempre provvidenzialmente controbilanciate da qualche prezioso, quanto imprevedibile antidoto:
- ad esempio allorquando, essendo rimasto in paese solo un centinaio di persone ritenute indispensabili (come mia madre per la sua professione) dopo lo “sfollamento” in sedi lontane di quasi tutti gli abitanti, un terribile ufficiale inglese, rifiutando in malo modo a mia madre l’elemosina di un po’ di latte, le rispose nella sua lingua:
“Ne muoiono tanti in Russia di bambini, che non possiamo certo preoccuparci di uno in più a Capracotta” (Sic!)
e tutto ciò con la testimonianza diretta di un nostro concittadino, se non vado errato della famiglia di Pasquale Venditti (“Bazzarini”) che, costretto a fungere da interprete, era comprensibilmente restio a tradurre quella tremenda frase.
- per passare poi a quando, essendo i tedeschi già lontani da Capracotta nella loro ritirata, fui molto sostenuto dalla generosità dei soldati polacchi che non esitavano a condividere le loro razioni di cibo (e di latte evaporato) con la mia famiglia e con me; alcuni di loro anzi, si commuovevano alla mia presenza o mi “accarezzavano” anche dall’esterno dei vetri quando, passando con gli sci, lo spessore elevatissimo della neve consentiva di raggiungere la nostra finestra al primo piano.
Di tutto ciò ho sempre informato le diverse persone di nazionalità polacca che ho avuto occasione di seguire e di curare per la mia professione di medico: quasi cercando di colmare, così in ritardo, un immenso debito di gratitudine e tanto più nel fondato timore che diversi di quegli “Angeli” fossero poi stati uccisi di lì a poco nella famosa e drammatica “battaglia di Cassino”
- o ancora quando mio padre riuscì ad acquistare dalla famiglia dei signori Campanelli, a prezzo simbolico, una discreta quantità di miele per addolcire in modo naturale e nutriente le prime pappine destinate a me; cominciavo infatti a stare abbastanza bene, tanto che mia madre, non senza una punta di ironia, poté scrivere nel suo diario:
“il mio piccolo crebbe poi sempre gracilino, ma non morì come avevo tanto e tanto a lungo temuto”.
Ripensando a questi accadimenti, sembra davvero incredibile che da un simile scenario di distruzione potesse in qualche modo risorgere la vita; al termine invece, di questa mia testimonianza (diretta e indiretta al tempo stesso), sono maggiormente convinto che non avesse torto mia madre quando, sempre nel suo racconto del 1993, recitava testualmente:
“L’alacre operosità dei capracottesi fece sì che in pochi anni, il paese che la guerra aveva ridotto ad un cumulo di macerie, tornasse ad essere bello e ridente come e più di prima”.
E, mi sembra superfluo ricordarlo, mia madre non era neppure molisana.
Tornando alla mia storia personale, voglio sperare che affiori anche da queste memorie il mio particolarissimo legame di affetto per Capracotta, che mi ha visto nascere nel lontano 1943 (mi chiedo solo come sia possibile che tanti anni siano trascorsi così in fretta?); sempre convinto, per quanto sembri paradossale, che resti grande il mio debito di gratitudine nei confronti di “quella neve e quel fumo (o di quella “Voria) da parte della mia generazione: davvero temprata da quei drammatici eventi a percorrere in seguito le diverse “strade della vita”: spesso (e per tanti) con la pesante valigia dell’emigrante in mano!
Posso solo aggiungere che, quando per una visita oltrepasso ora la soglia del Cimitero, specie se coperta di neve e di ghiaccio, ho l’impressione che salga sempre un po’ di fumo (o di incenso?) dal suo tetto con la Croce e la piccola campana, mentre mi accolgono i bassorilievi della “Via Lucis” (voluti dagli amici sacerdoti don Michele e don Antonio Di Lorenzo).
Essi mi aiutano a pregustare nel silenzio della Preghiera, “all’ombra di monte Campo”, un altro incontro con i miei genitori, la sorellina Antonietta e tanti “nonni” che cercano ora di proteggermi dal “freddo interiore”: facendo a gara, da lontano, con la nonna Guglielma che pure ha voluto essere sepolta nel Cimitero del suo paese natale.
Per concludere, considerando ancora una volta la coincidenza emblematica del mio 70° compleanno con l’anniversario della distruzione di Capracotta (1943-2013), non mi vergogno di ripetere, in tutta sincerità:
E naufragar m’è dolce…in quel turbine di guerra,
tanto è vero che ho cercato di riviverlo un po’ in queste righe che affido di cuore alla memoria dei cari concittadini ed in particolare dei giovani e dei bambini di oggi: a cominciare, naturalmente dai miei cinque nipoti Lorenzo, Andrea, Elda, Emma e Mattia
Ti abbraccio forte…per 70 volte, Capracotta
Aldo Trotta
Fonte: AA.VV., I Racconti di Capracotta, Vol. IV, Studio Grafico Proforma, Isernia, 2013