Il “mitico” Clipper in azione in una foto degli anni Cinquanta
Nei giorni dell’equinozio di primavera, specie sulla costa adriatica, non può certo meravigliare che fioriscano gli alberi: stamani infatti notavo dalla finestra che ce ne sono di bellissimi, tutti rosa, ma non riuscivo a gioirne; ero infatti di cattivo umore dopo aver sognato, sia pure anacronisticamente, di essere immerso nel mio elemento più naturale, la neve: che poi, svegliandomi, era svanita di colpo con tutta la sua magia.
E pensare che, almeno oggi, non avrei dovuto sentirmi così contrariato perché fortunatamente il mio sogno non si era poi trasformato, come accade spesso negli ultimi anni, in un incubo notturno.
È abbastanza recente, ad esempio, quella che io chiamo una “disavventura onirica” in cui mi era parso di uscire felice a Capracotta, dopo una nevicata, in compagnia di carissimi amici di infanzia: Ezio, Michele e Vincenzino; con gli sci da fondo eravamo diretti verso prato Gentile ma, appena fuori dal paese, ho avuto la tremenda impressione di affondare nell’acqua quasi stessi facendo dello sci nautico: tutta la coltre bianca si era dissolta in un attimo ed io, che certamente non amo il mare, avevo quasi gridato per lo spavento.
Così stamani, sforzandomi di sognare ad occhi aperti, ho voluto immergermi nel ricordo di una delle esperienze più straordinarie vissute a Capracotta, quella di una tormenta di neve…di altri tempi: in tutta la sua maestosa atmosfera di incanto e di mistero non disgiunta, peraltro, da un nonsoché di “atavico” timore.
D’inverno, in paese, una giornata invernale sembrava spesso iniziare tranquilla con il cielo, in apparenza, sereno; come accade in montagna poi, già a metà mattina il vento (la nostra Vòria) addensava le nubi e cominciava a nevicare intensamente, nel turbinio di folate sempre più impetuose; così, magari anticipando l’uscita dalla scuola, schiere di nostri genitori si affrettavano a riprenderci per riportarci frettolosamente a casa ed io ricordo benissimo che camminavo senza neppure guardare dove mettessi i piedi: mi conduceva infatti papà Ottaviano, tenendomi accuratamente coperto con il suo largo mantello a ruota che tuttora custodisco gelosamente.
A tale proposito, mi piace ricordare lo spavento di una giovanissima atleta che in anni più recenti, proveniente dal Nord Italia, si trovava a Capracotta per una gara di sci; ci fu una terribile bufera che la indusse ad esclamare:
“non ho mai visto un posto in cui la neve sembra arrivare dalla terra piuttosto che dal cielo
e che, soprattutto, ti fa restare senza respiro!”
Tornando al mio racconto, rientravo a casa dalla scuola intirizzito e mi scaldavo vicino al fuoco dopo essermi tolto le calze e gli scarponi bagnati perché il nostro abbigliamento non era certo ottimale; si percepiva comunque una grande serenità nella consapevolezza che, fortunatamente, avessimo tutto l’indispensabile per sopravvivere a lungo come reclusi: allora una bufera poteva talora durare 24-36 ore o anche più!
Senza l’assillo immediato dei compiti, nel pomeriggio osservavo con grande stupore il grandioso, cangiante scenario della tormenta; i vetri delle finestre, non quelle moderne attuali, erano tutti gelati ma conoscevo bene il segreto per poter superare questa difficoltà; bastava strofinarli con un sacchettino di cotone riempito di sale da cucina (una specie di “pupattella” capracottese): come aveva fatto la nonna Guglielma quando, da piccolissimo, era riuscita a mostrarmi un lupo che si aggirava di notte nella neve.
Per descrivere quel meraviglioso spettacolo della natura, mi piace ricorrere alle parole quanto mai espressive del caro Domenico D’Andrea, mio vicino di casa e valoroso insegnante, tratte dal volume: “Sul filo della memoria”:
“La bufera ruggiva sollevando turbini vorticosi di neve…
lo spolverio bianco velava tutto…; gli oggetti perdevano
la loro forma, si annullavano nel biancore turbinoso”.
Più tardi la nonna, costretta a utilizzare le provviste alimentari accantonate per l’inverno, riusciva a preparare una cena degna di un “ristorante stellato”, con tanto di ricercato menù; ero sceso infatti con lei nel ripostiglio sotto la scala, un ambiente che, pur così piccolo, era stracolmo di latticini e salumi stagionati, di stoccafisso, di mele buonissime e di ogni altro ben di Dio: c’era solo l’imbarazzo della scelta, ma allora non potevo rendermi conto pienamente di quanto fossi privilegiato.
Quasi dimenticavo che si restava facilmente senza corrente elettrica, ma la nostra antica lampada a petrolio, tuttora efficientissima, non faceva che esaltare il mistero di quello scenario da favola; erano solo un po’ irritanti i suoi vapori e quasi dispiace di conservarla come un soprammobile, ora che disponiamo di appositi, profumati combustibili.
Non è superfluo, forse, ricordare che allora non disponevamo neppure della televisione e, tanto meno, di altri moderni elettrodomestici: è incredibile come ci si accontentasse davvero di poco!
Solo da più grandicello fui maggiormente consapevole dei potenziali rischi che una tormenta di neve poteva comportare: ad esempio la difficoltà estrema di soccorrere un malato o, ancor più spesso, una donna in travaglio di parto; mia madre Cesarina infatti, come ostetrica, raccontava di diverse occasioni in cui, pur con l’aiuto di persone vigorose, aveva impiegato tanto tempo a raggiungere l’abitazione di una puerpera: al punto da trovarsi spesso di fronte un bimbo venuto al mondo da solo e già quasi quasi pronto, scherzava… per la scuola materna!
Tutto ciò, naturalmente, anche per il blocco assoluto e spesso prolungato delle strade, solo in parte risolto con l’arrivo del grande spartineve americano: che comunque, salvo casi eccezionali, non poteva essere utilizzato con la tormenta in atto; restano peraltro memorabili, come è noto, diversi eroici interventi di salvataggio in emergenza, anche di notte, cui avevano sempre contribuito molti concittadini: allarmati spesso, come tutti, dal suono martellante delle campane.
Proseguendo nel mio racconto, a tarda sera andavo a dormire sereno nel mio letto, nel tepore del nostro scaldino tradizionale, il famoso “monaco”, ma devo ammettere che, di solito, stentavo un po’ a prendere sonno perché:
“il vento sibilava fischiando nelle fessure e sotto le porte…
e immaginavi che un genio furioso e scatenato,
intromessosi in casa, fosse pronto a spazzare via tutto”.
Al risveglio del mattino successivo restavo attonito ad osservare gli altissimi cumuli di neve capricciosamente disseminati qua e là dalla bufera, che spesso era sì attenuata, ma non conclusa: già pregustando, tuttavia, il regalo imprevisto di un giorno di vacanza dalla scuola e, con esso, di tanti nuovi giochi sulla neve fresca.
Aggiungo infine che, immancabilmente, si sentiva poi bussare dall’esterno sui vetri della finestra ancor più arabescati dal gelo notturno: era uno dei diversi giovani volontari che magari, essendo con gli sci all’altezza del primo piano, attendeva pazientemente che gli aprissimo; già pronto infatti, a rendersi utile, voleva solo chiederci se avessimo necessità urgente di qualcosa: a cominciare dal pane o da un medicinale indispensabile.
Intanto molti spalatori, altrettanto disponibili e generosi, stavano già faticosamente realizzando dei viottoli fino a disseppellire dalla neve i portoni delle case: specie quelle abitate da anziani e/o disabili dei quali nessuno si sarebbe mai dimenticato.
Così, sperando che il mio non resti solo un sogno ad occhi aperti, mi emoziona e mi commuove moltissimo il ricordo del buon cuore e della grande solidarietà delle persone di montagna con cui sono cresciuto; mi auguro infatti, specie nel difficilissimo periodo storico attuale, che facciano tesoro del loro esempio le nuove generazioni: a cominciare dai mei cari nipoti che da bambini non hanno certamente vissuto, me ne dispiace tanto, l’esperienza indimenticabile di una tormenta di neve a Capracotta.
Aldo Trotta