Come forse molti ricordano ho cercato più volte, specie nel difficile periodo che stiamo tutti vivendo, di approfondire e di spiegare le complesse motivazioni psicologiche che sono alla base della mia esagerata “nostalgia” per Capracotta, il paese in cui sono nato: sulle quali, peraltro, non ho mai cessato di riflettere ma che, in larga misura e certamente in modo superficiale, ho sempre attribuito allo sconforto di non potervi ritornare stabilmente per trascorrere, come avrei desiderato, la mia vecchiaia.
Del resto non è un mistero che, pur essendone attratto, non amo particolarmente la psicologia clinica; non è casuale infatti che, da studente universitario di medicina, sia pure avendone diligentemente frequentato il corso accademico allora non obbligatorio, io non avessi poi sostenuto l’esame finale.
Mi è capitato così di leggere il quesito ad uno psicoterapeuta di un emigrato in Germania che, confessando di soffrire molto la nostalgia per la propria terra di origine, non riusciva a farsene una ragione convincente: da bambino infatti, per troppo poco tempo era vissuto in un piccolo paese del nostro Sud, negli anni della scuola elementare; ripensavo, così, che anch’io sono restato a Capracotta solo fino all’età di 16 anni ed è comprensibile il mio timore di aver scambiato, proprio come quell’emigrato, la mia incapacità di costruire nuovi rapporti e di ambientarmi in una diversa realtà con un patologico attaccamento alle “origini”.
Nulla, tuttavia, della mia storia personale e professionale è mai sembrato avvalorare questa ipotesi fino a che la mia attenzione è stata attirata dalla confessione di un notissimo antropologo, il professor Vito Teti che, nel suo volume intitolato appunto “Nostalgia”, recita testualmente:
“Sono un nostalgico: la nostalgia non è un sentimento degli anziani ma comincia da bambino, forse già appena nasci, quando abbandoni il seno materno. Quella sensazione-emozione-sentimento-desiderio che poi avrei sentito definire nostalgia, appartiene al mio vissuto fin da piccolo”.
Dallo stesso autore ho appreso che il termine nostalgia, da “nostos” (ritorno in patria) e “algos” (dolore-tristezza) è relativamente recente: è stato usato per la prima volta nella “Dissertatio medica de nostalgia” nel 1688 da Johannes Hofer, uno studente dell’Università di Basilea a proposito di giovani svizzeri inviati all’estero per servizio militare o altre mansioni.
Molti di loro infatti, considerati poi affetti dalla cosiddetta “malattia dei giovani svizzeri”, presentavano gli stessi disturbi: tristezza invincibile, la patria come pensiero dominante, insonnia, respiro sospiroso fino al rifiuto del cibo, angoscia e tanto altro; per la sua diffusione quasi epidemica non si trattava comunque di una sindrome psichiatrica a sfondo malinconico- depressivo, salvo casi particolari.
Tra le più importanti cause allora ipotizzate, io sono rimasto particolarmente colpito da una di esse, definita “tedio dell’aria straniera” e mi è tornata in mente la storia documentata di un vecchio capracottese di cui, purtroppo, non ricordo il nome.
Si era dopo la grande emigrazione in territorio italiano ed europeo degli anni ’50-’60 e quindi era già diffusamente in crisi il modello di cosiddetta “famiglia patriarcale”; cominciava perciò ad essere frequente che molti anziani rimanessero a vivere da soli in paese, salvo magari nel periodo più inclemente della stagione invernale.
Fu così che il simpaticissimo nonno, invitato dai figli residenti a Roma, si lasciò convincere a raggiungerli per rimanere piuttosto a lungo con loro; di lì a pochissimi giorni invece, ancora durante le festività natalizie, un suo vicino di casa di casa lo incontrò per strada a Capracotta e gli chiese sorpreso:
“ma mò, sie’ già armɘnutɘ?”
(come mai sei già tornato?)
e lui, sorridendo, rispose:
” “n’ mɘ faceva l’aria”
(l’aria era molto dannosa per me),
giudicandone responsabile proprio il “tedio dell’aria straniera” e, per di più, quella già inquinata di una grossa città.
Tornando ora al mio vissuto, mi lascia perplesso il pensiero del filosofo Kant, che considera la nostalgia non come perdita di un luogo, ma di un tempo, in genere quello dell’infanzia o della giovinezza; non mi sembra corretto, invece, che venga interpretata come dolorosa consapevolezza dell’impossibilità di ritorno sia ad un luogo che a un tempo passato.
Mi piace moltissimo, invece, la cosiddetta “teoria acustica” che la descrive come un turbamento intimo evocato spesso dall’ascolto di un brano musicale; ed io, da questo punto di vista, avrei solo l’imbarazzo della scelta: a cominciare dal commovente canto capracottese del Padre Nostro o dalla Nenia per la santa Messa di Natale e tanto altro del semplice folklore paesano.
Non è casuale infatti che molti studiosi ripetano spesso:
“la musica è, di fatto, nostalgica e la nostalgia è, indirettamente, musicale”;
basta pensare a generi come il Fado portoghese o lo stesso Gospel, ma non mancano esempi molto più vicini a noi come la canzone “Yesterday” dei Beatles e persino “Nostalgia canaglia” di Albano e Romina.
È ben nota, d’altro canto, la distinzione operata da Alexander Martin tra “nostalgia vera” e “nostalgia patologica” e di esse la prima, in cui mi riconosco maggiormente, è (o dovrebbe essere?):
“una sorgente di forza, una “spinta attiva” a tenersi in contatto con le proprie radici, con il passato e con l’infanzia”; la seconda invece, che ignoravo prendesse il nome di “nostomania”, esprime angoscia profonda, al limite della grave psicopatologia”
Ecco le ragioni per cui, sia pure nello sconforto di questo mio complicato periodo, mi sforzo di considerare la nostalgia non una “malattia morale”, ma un “sentimento” che andrebbe utilizzato positivamente, ad esempio come possibilità di evitare il rischio di un completo “spaesamento”: ad esempio quello espresso dalle parole di Charles Baudelaire, sebbene sembrino adattarsi alla professione che ho svolto:
“La vita è un ospedale in cui ogni ammalato è posseduto dal desiderio di cambiare letto. Uno vorrebbe soffrire accanto alla stufa, l’altro crede che guarirebbe se fosse vicino alla finestra. A me sembra che sarei felice dove non sono” (e forse dove non potrò mai più tornare?)
In altri termini mi piacerebbe continuare a sperare, almeno per i più giovani, che la “nostalgia vera” continui ad essere per tutti uno stimolo vitale, capace di innescare autentici processi innovativi; vorrei, cioè che questo sentimento ci aiutasse a ricostruire in positivo la nostra storia senza malinconici e sterili rimpianti del passato.
E, di nuovo ricorrendo alle parole del professor Teti, sono convinto che:
“Colui che pensa di essere immune dal proprio passato, il retorico dell’antinostalgia, resta spesso ancor più ancorato all’universo scomparso. Chi invece ha un punto di partenza, a cui ritorna con la memoria, sa mettersi in viaggio per cercare nuovi punti di arrivo e di partenza”.
“La memoria buona potrebbe così suscitare la nostalgia costruttiva e persino rivoluzionaria delle sette opere di misericordia corporale (tanto presenti nell’insegnamento anche di papa Francesco): dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti”;
peccato davvero che non siamo ancora riusciti a scacciare la guerra dai nostri orizzonti: la stessa, tremenda guerra purtroppo, che oltre 70 anni fa ha quasi fatto scomparire anche il nostro carissimo paese.
Perciò, a maggior ragione faccio voti affinché, affievolendosi sempre di più la nostalgia “patologica”, prevalga quella “creatrice” ed aumenti in tutti noi, specie gli ormai pochi abitanti di Capracotta, l’ottimismo della speranza: di cui molti, nonostante le indiscutibili difficoltà, intravedono forse i primi confortanti segnali.
A tale proposito, vorrei sottolineare un altro aspetto pressoché sconosciuto e mai approfondito da parte mia: il fatto cioè che soffre spesso di nostalgia anche chi non si è mai allontanato dal proprio luogo di origine; e, sempre attingendo alle parole del professor Teti:
“si tratta di persone che, proprio “restando”, hanno vissuto le grandi e inattese trasformazioni del mondo in cui sono nate, al punto da farle sentire “straniere in patria”; queste persone, in qualche modo custodi del passato, vivono l’amarezza di un duplice scacco della nostalgia: hanno desiderio dell’altrove senza essere mai partite, devono ritornare al passato di luoghi che non hanno mai abbandonato”.
A questo punto mi rendo conto di aver pericolosamente sfiorato le più complesse dinamiche dell’animo umano ed io, come già dicevo, non sono certamente uno psicologo; col “senno di poi”, il mio grande rammarico è di non aver compreso, incontrandoli sempre più di rado, il disagio degli attuali, coraggiosi custodi del paese e delle sue tradizioni: non ho mai riflettuto infatti, che sono:
“i melanconici abitatori di un mondo in crisi da cui non si sono mai mossi ed i nostalgici sognatori di un mondo che non conoscono”.
Così, augurandomi di averne un po’ chiarito la natura, faccio voti affinché la “NOSTALGIA” non venga almeno considerata un sentimento puerile o irrimediabilmente negativo; per quanto mi riguarda tuttavia, pur rischiando di smentire ciò che ho appena detto, mi dispiace riconoscere che sono tuttora un “nostalgico” di vecchio stile.
Ricordando infine che l’antica denominazione di “malattia dei giovani svizzeri” non è scientificamente corretta, concludo ironizzando proprio su questa espressione; se un giorno infatti venisse identificata anche una “malattia dei vecchi capracottesi”, io ne sarei forse la prova più convincente; e pensare che, per farmi guarire, basterebbe un semplicissimo biglietto: per il viaggio di ritorno a Capracotta, naturalmente.
Aldo Trotta
Biblpiografia:
V. Teti, Nostalgia, Marietti Editore, 2020