Le mule di Pasquale “Dolce”
In questi ultimi difficili anni, specie nel periodo più recente, ho trovato grande conforto spirituale scrivendo piccoli racconti, spesso dedicati ai miei anni giovanili vissuti a Capracotta; ed è stato assai lusinghiero nei miei confronti il giudizio di tanti amici che hanno avuto la bontà di leggerli: sebbene alcuni di loro mi abbiano affettuosamente segnalato che talora mi sono lasciato trasportare eccessivamente dal rimpianto inconsolabile per quella felice stagione, rischiando così, di diventare “monotono”.
Per questo motivo ho cercato di documentarmi meglio sull’argomento della nostalgia scoprendo tra l’altro, non senza sorpresa, che è stata la letteratura e in particolare la poesia a trasformarla da malattia in sentimento: nel senso che il “nostos”, il “ritorno negato” e perciò doloroso (“algia”), sarebbe divenuto magicamente possibile nella trasfigurazione letteraria di scrittori e poeti di ogni tempo: da Omero a Dante, da Leopardi a Baudelaire e tanti altri.
Nel mio piccolo, escludendo s’intende la poesia, ho già forse inconsapevolmente sperimentato il meccanismo di autodifesa della scrittura: cui mi piacerebbe di continuare ad affidarmi pur cercando di non lasciarmi travolgere dalla nostalgia patologica.
Così, in queste settimane, ho avuto occasione di seguire un filmato televisivo dedicato al trasporto in montagna della legna da ardere mediante l’aiuto dei cavalli o dei muli: era stato girato di recente nell’Europa dell’Est ma, per moltissime, emozionanti analogie, sembrava fosse ambientato a Capracotta negli anni ’50.
Nel nostro paese infatti, secondo una tradizione estiva antichissima, ogni nucleo familiare doveva provvedere un grande quantitativo di legna da ardere che sarebbe stata utilizzata non durante l’inverno seguente, ma in quello ancora successivo; ed è superfluo sottolineare che in quei lontani e più freddi decenni non si poteva che attingere ai nostri splendidi boschi di faggio per l’unico, prezioso combustibile.
Un’ antica normativa comunale per il cosiddetto “uso civico, nel rispetto assoluto di quella che oggi si chiamerebbe “sostenibilità ambientale” prevedeva, tra l’altro, non solo di assegnarne un certo quantitativo gratuito alle famiglie meno abbienti, ma anche di assicurare condizioni di vendita molto vantaggiose a tutti i cittadini residenti; oltre tutto era consentito anche ai privati di raccogliere gran parte del fasciame leggero proveniente dal taglio delle piante, che veniva comunque utilizzato e che garantiva una scrupolosa pulizia del sottobosco, quindi anche la prevenzione degli incendi.
C’era, quindi, un regolare, fiorente commercio di fascine, che venivano chiamate “Ceppɘ”, cedute spesso anche nella modalità del baratto e i più anziani ricordano il personaggio più famoso in questo ambito Lucia De Renzis (di “Milione”) che riusciva a portarne una pesantissima sulla testa usando l’apposita ciambella di panno arrotolato, la cosiddetta “Spara”, sempre utile anche per altri generi di trasporto; nessuno comunque si sarebbe mai permesso il benché minimo illecito, ma esisteva la mitica figura del “guardaboschi” in divisa: io stesso ho l’impressione di rivederne uno, in questo momento, il caro Giovanni Antonio Di Tanna, zio materno di mio padre.
Ogni anno, a Capracotta, bisognava armonizzare i tempi di due operazioni tra di loro complementari: si doveva cioè, dopo aver immagazzinato la legna dell’anno precedente, costruire al suo posto una nuova catasta all’aperto che, insieme alle tante altre, avrebbe contribuito a realizzare il vero e proprio “arredo urbano’ di allora; eccezionalmente anche oggi, sulla scia di questa tradizione, se ne può ancora osservare qualcuna, talora molto originale in qualche angolo del paese.
Per l’impiego quotidiano della legna, una delle maggiori difficoltà per mio padre era rappresentata dal fatto che, nella parte posteriore, la nostra casa fosse molto alta; utilizzava perciò una carrucola a mano con un robustissimo secchio e una lunga fune per farla arrivare sull’ultima finestra in alto, non lontano dal sottotetto: cui perveniva grazie alle braccia di tanti, noi ragazzi compresi, per essere infine, di nuovo accatastata al coperto.
Per la legna ancora fresca, invece, la fase più impegnativa era senza dubbio quella del suo trasporto dalle radure nel bosco, spesso in zone molto impervie, fino ai sentieri battuti e alla strada carrozzabile vera e propria: questa operazione a Capracotta veniva definita “arcaccià ‘l lena” (fare il “ricaccio” della legna, “esboscare”) e mi piace di ricordare che, per raggiungere il paese, le cordate di cavalli o di muli dovevano ancora percorrere diversi chilometri. con circa 130 Kg. di soma per ciascuno.
Il momento più suggestivo, a mio giudizio, rimane quello del carico e dello scarico degli animali: aggiungo, per inciso, che la legna assegnata dal Comune veniva misurata in “canne” dalle seguenti dimensioni garantite: 4,78 metri di lunghezza, 1,06 di altezza, 1,06 di larghezza per un volume complessivo di circa 4 metri cubi.
Da bambino mi piaceva osservare a lungo tutte le fasi di questo lavoro e, ogni volta, mi sorprendeva moltissimo l’addestramento estremo degli animali, nonché l’incredibile affiatamento con i loro conduttori; questi ultimi erano bravissimi a servirsi di appositi bastoni a Y per sostenere e, al tempo stesso, equilibrare il carico prima che rimanesse fissato definitivamente; sembrava poi un gioco di prestigio farlo scivolare in un attimo, ai lati di ciascun animale che non veniva neppure sfiorato dai tronchi: e che restava, perciò, imperturbabile sebbene non si trattasse sempre di esemplari molto mansueti.
In altri momenti della loro giornata infatti, mi rendevo conto che occorreva molta fermezza da parte dei mulattieri per tenerli a bada: tra i tanti il compianto Pasquale Santilli, soprannominato “Dolce” sebbene non potesse sempre permettersi l’arma della “dolcezza” con i suoi muli; superfluo, ancora, sottolineare l’eccezionale efficienza e tenuta dei loro basti, magistralmente costruiti a Capracotta secondo la tradizione artigianale antichissima di diverse famiglie: sostenevano in sicurezza un peso enorme, erano dotati di straordinari tiranti per la fase di scarico e, soprattutto, erano quanto mai protettivi per il dorso degli animali.
Tornando ai miei ricordi, aggiungo che, prima di comporre la nuova catasta per l’anno successivo, occorreva un’altra fase di lavoro molto impegnativo: quella per segare i tronchi con la vecchia, lunghissima sega a mano che, in dialetto veniva chiamata “Sctuocchɘ” (che “taglia di netto, “che spezza”); era manovrata da due uomini al di qua e al di là di un cavalletto che poi provvedevano a spaccare la legna anche in piccoli pezzi quando, come nel nostro caso, si utilizzava la stufa piuttosto che il caminetto: si trattava di persone con grande esperienza e straordinaria potenza fisica che comportava, naturalmente, anche un enorme dispendio energetico.
Avviandomi a concludere il mio racconto, mi giunge dalla finestra aperta il rumore del cantiere edile che sta ristrutturando il nostro edificio, in particolare quello di un moderno “martello” e mi illudo, per un attimo, che un po’ rassomigli a quello degli “spaccalegna” tanti anni fa: non è purtroppo così ma, ancora una volta, mi sforzo di non ricadere nella perversa spirale di nostalgia che dicevo.
Non sarebbe comunque possibile ipotizzare un ritorno reale a tradizioni come quella descritta, anche ammesso che fossimo obbligati a retrocedere nel tempo; pensavo infatti che fra poco non saremo forse neppure in grado di sollevare la tapparella di una finestra senza un apposito telecomando elettrico: figuriamoci se si riproponesse ai giovani di oggi la fatica e il sudore dell’incredibile lavoro che ho voluto ricordare con immensa gratitudine.
Aldo Trotta