Panorama di Capracotta. Foto: Ida Carnevale
Del tutto imprevedibilmente, dopo tanto tempo per i numerosi impedimenti e la patologia invalidante di mia moglie Anna, sono riuscito finalmente a tornare a Capracotta: e mi auguro di poterci restare almeno qualche settimana o anche più essendo purtroppo escludibile, per mille ragioni, che possiamo risiedervi stabilmente come avrei desiderato.
Riflettevo al fatto che parenti e amici carissimi mi hanno fraternamente consigliato di mitigare i toni di “nostalgia” esasperata per il paese che mi ha visto nascere; mi sto sforzando perciò, come già dicevo, di ridimensionare il mio sconforto pur riconoscendo che non è facile, alla mia venerabile età, cancellarne le tendenze più “malinconiche” e ricondurla, d’incanto, alla cosiddetta “nostalgia creativa”.
D’altro canto, come insegna un antico proverbio latino e come, mio malgrado ho dovuto convincermi, “Nemo ad impossibilia tenetur” (Nessuno può cimentarsi con le cose impossibili); così, sia pure nel dispiacere per il “non ritorno”, il “nostos” doloroso cui ho sempre accennato, sto cercando di lucrare tutto il beneficio possibile dalla presente occasione: che sembra avermi concesso, contro ogni previsione, di ritrovare me stesso nella vecchia casa in cui sono nato.
Confesso di aver avuto, nei mesi scorsi, un’ulteriore, inattesa difficoltà giacché, per la prima volta nella mia vita, ho provato la sgradevole impressione descritta in una famosa canzone napoletana:
“muoio dalla smania di tornare al mio paese ma…
che posso farci? ho davvero paura di andarvi”.
Sono tante le ragioni di questo paradosso interiore, specie i grandi cambiamenti ambientali e socio-culturali intervenuti nel tempo anche nei piccoli centri: senza contare, nella mia fascia di età, il dispiacere che siano sempre più pochi gli amici, specie i coetanei, che ormai è possibile rivedere.
Al contrario, sebbene non ami la psicologia, mi trovo a ripetere il tentativo di condividere le “emozioni” che mi hanno piacevolmente sommerso in questi giorni: che mi sembrano assai coinvolgenti rispetto al passato quando mi sentivo appagato e felice già nel momento in cui, ancora in automobile, scorgevo da lontano il profilo inconfondibile dei nostri monti.
Come tutti sanno l’emozione, dal latino “ex-movere”, è una reazione affettiva intensa, anche di lunghissima durata, provocata da stimoli ambientali o mentali, ma non posso certo approfondire questo complesso e parzialmente inesplorato argomento; oltre tutto sono tantissime e talora contradditorie le sue interpretazioni neurologiche, filosofiche e antropologiche.
Trascurando così ogni velleità culturale, mi piace credere che nel mio caso sia davvero in atto il risveglio inatteso di “emozioni positive”: assopite certamente negli anni, ma che affondano le loro radici in un ambiente più che favoloso e in un “vissuto”, per me, così determinante.
A tale proposito ho sentito molto vicina al mio stato d’animo attuale la teoria di J. P. Sartre che descrive l’emozione come una
“trasformazione magica del mondo”
che io ritengo molto somigliante alla fiabesca idealizzazione della realtà che spesso si costruiscono, per gioco (?), i bambini.
Era andata in crescendo inesorabile, negli ultimi anni, la sensazione che le mie strade fossero divenute impraticabili, con tutti i percorsi come sbarrati”: il che mi ha suggerito l’utopia, incredibilmente “senile”, di evadere come per “magia” dal presente con il suo pessimismo e di recuperare una diversa e consolante “nostalgia creativa.
Accettando, perciò, la lusinghiera sfida di rivivere con maggiore serenità i ricordi infantili e giovanili che fanno parte della cosiddetta “emozione positiva di lunga durata”, sottolineo solo alcuni tra quelli che più hanno contribuito a migliorare il tono del mio umore: a cominciare dal cielo azzurro e dall’aria tersa degli ultimi giorni, fino alla riscoperta di tanti angoli del paese, delle sue Chiese con la loro spiritualità, della storia di molti, amatissimi personaggi e di tanto altro.
Mi sono spesso sorpreso nello stesso atteggiamento di mio padre Ottaviano che, riuscendo anche lui a tornare di rado a Capracotta, restava immobile, affacciato per ore al davanzale della finestra facendo il pieno, si giustificava, di “aria nativa”; e sono fiducioso che anch’io riesca finalmente a disintossicarmi dal cosiddetto “tedio dell’aria straniera”, uno dei fattori ritenuti responsabili, anticamente, della “nostalgia patologica”.
Qualche giorno fa, scrutando l’orizzonte all’alba, ho avuto la gioia di individuare a occhio nudo, sul crinale di monte Campo, la Croce votiva di ferro battuto che mio nonno Carmine, nel lontano 1925, aveva fatto collocare lungo il sentiero che conduceva ai suoi terreni in località “Orto Ianiro”; allo stesso modo, in altre ore della giornata, è stato un vero caleidoscopio di immagini e di sensazioni, come in una sequenza cinematografica, a lasciarmi senza parole; dietro casa ad esempio, in un agosto mai così afoso anche a Capracotta, al posto del moderno impianto sportivo attuale, vedevo ricomparire l’antico campetto in discesa in cui, da piccolo, imparavo a sciare: e tanti bambini e ragazzi di cui ascoltavo il vociare festoso stavano ruzzolando felici, con me, nella neve.
Potrei ora continuare all’infinito se non temessi, come sempre, di annoiare: aggiungo solo un altro momento incantevole perché, dopo tantissimo tempo e da solo, mi sono inoltrato nell’immenso e bosco di faggi e di abeti intorno a Prato Gentile; pochi minuti dopo, lo scenario era già quello invernale di un meraviglioso, infinito arabesco, nel luccichio abbagliante dei cristalli di ghiaccio di quegli alberi: potenza delle emozioni ambientali e visive!
In definitiva, a conclusione delle mie riflessioni e dei miei propositi, non posso che rinnovare ancora una volta tutta la mia gratitudine per quanto ho ricevuto e ricevo tuttora in dono dal mio straordinario paese: con le sue “emozioni” appunto, di lungo periodo, capaci persino di rasserenare un vecchio “errante” come me; perciò voglio sperare che si addicano anche me le parole dello scrittore Edmond Jabès che diceva:
“bisogna aver intrapreso molte strade per accorgersi,
alla fine, che in nessun momento si è lasciata la propria”.
Mi piacerebbe tanto meritarlo davvero, ma non sarei sincero se nascondessi che, nonostante ogni sforzo, riaffiora ogni tanto la tentazione di quella “nostalgia” perniciosa: che pure cercherò di continuare a combattere con tutte le mie forze.
Così, con un po’ di autoironia, mi piace riportare il testo di una poesia di Aldo Palazzeschi intitolata: “Chi sono?” e che, non posso negarlo, esercita tuttora grande suggestione su di me: è solo per augurarmi che la preziosa occasione di questo ritorno a Capracotta mi regali la certezza di aver finalmente risolto il mio sofferto “conflitto di emozioni”:
Sono forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana.
la penna dell’anima mia: “follia”
Sono dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore la tavolozza dell’anima mia: “malinconia”
Un musico allora?
Nemmeno
Non c’è che una nota nella tastiera dell’anima mia: “nostalgia”
Son dunque…che cosa?
Io metto una lente davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono? “Il saltimbanco dell’anima mia”
Aldo Trotta
Bibliografia:
U. Galimberti, Il libro delle emozioni, Feltrinelli Editore 2022