Il santuario di sant’Onofrio
In una recente occasione ho avuto modo di ricordare che negli anni ’50, quando la Scuola Media non era obbligatoria per tutti, a Capracotta ne esisteva una del tutto privata, organizzata e gestita dall’Amministrazione comunale; era naturalmente necessario un contributo economico a carico delle famiglie degli alunni, ma tanti come me in quel lontano periodo ne hanno usufruito accettando l’inconveniente di sostenere ogni anno, da privatista, l’esame di passaggio alla classe successiva presso un Istituto Statale: in genere quello più vicino a noi, ad Agnone, dopo aver superato il cosiddetto “esame di ammissione”.
A tale proposito, rimarcando l’estrema differenza di allora sul piano socio-culturale, aggiungo che per le attività didattiche veniva utilizzato, in orario postmeridiano, l’edificio della Scuola elementare oppure un appartamento preso in affitto; è comprensibile, perciò, che fossero tante le difficoltà logistiche e organizzative, ma non tali da influire negativamente sulla preparazione degli studenti: garantita con professionalità e sacrificio da un gruppetto di valorosi insegnanti cui va il nostro affettuoso ricordo, unitamente a tanta riconoscenza per aver consentito alla maggior parte di noi di proseguire con profitto gli studi negli Istituti scolastici superiori: per me lo storico liceo classico “Mario Pagano” di Campobasso.
Fa certamente sorridere, ad esempio, che nel periodo invernale tanto rigido a Capracotta, ognuno di noi si sentisse quasi obbligato a portare con sé un po’ di legna al mattino per alimentare le vecchie stufe di terracotta; allo scopo eravamo persino forniti di un apposito e robusto borsone in aggiunta alla cartella dei libri e poco ci importava che spesso avessimo gli occhi arrossati…per il fumo!
Oggi, del tutto casualmente, mi sono sorpreso ad ammirare di nuovo un bel disegno fatto dalla mia nipotina Emma, di circa 14 anni, che frequenta la terza classe della Scuola Media; qualche mese fa era magistralmente riuscita a riprodurre con il carboncino un antico ritratto giovanile di mia nonna materna e l’avevo fatta sorridere raccontandole dell’unica mia disavventura scolastica: guarda caso proprio in questo ambito… artistico!
Al termine dell’anno 1955-56 infatti, quando tutto era parso andare per il meglio nell’esame finale del secondo corso, fu grande il mio sconforto per ciò che accadde affrontando la prova di disegno; era allora consuetudine che essa consistesse di una figura a mano libera al centro del foglio per cui si richiedeva una perfetta squadratura ed io stavo già congratulandomi con me stesso per aver raffigurato un bel ramo fiorito, quando avvenne l’irreparabile. Mancava solo che completassi il lavoro ripassandone i bordi e la cornice interna con il cosiddetto “inchiostro di china” per cui disponevamo di appositi erogatori che sembravano piccoli compassi; questo inchiostro, detto anche “cinese” o semplicemente “china”, tuttora utilizzato anche per alcuni tipi di pittura e proveniente forse dalla Cina o dall’India, deriva da un pigmento nerissimo del carbone associato a un legante acquoso. Attualmente mi risulta che esistano, almeno per impiego professionale, delle apposite penne già caricate ma allora, almeno per me, non era facile aspirarne una piccola quantità; così, come si suol dire…”il diavolo ci mise la coda” e una grossa macchia nera si diffuse irreparabilmente sul foglio costringendomi ad asciugarlo alla meglio con della carta assorbente.
Non c’era tempo, purtroppo, per ricominciare tutto da capo e il risultato fu, con mio grande disappunto, di essere “rimandato a settembre”: solo in disegno e con la deprimente votazione di 4/10; fui così condizionato a seguire un corso di recupero durante l’estate unitamente a uno dei compagni cui era toccata la stessa mia disavventura, il caro Nando, che pure mi precedeva di un anno per aver frequentato la terza classe.
Successivamente io mi sono guardato bene dall’intraprendere degli studi che richiedessero la benché minima abilità nel disegno, ma sta di fatto che il mio caro amico sia poi diventato un brillante ingegnere; in ogni caso mi piace aggiungere, ricordandolo, in che modo ci eravamo reciprocamente aiutati durante quel faticoso corso di lezioni private.
Da Capracotta, infatti, era scomodissimo l’orario dell’unico autobus del mattino e così fummo autorizzati a raggiungere Agnone in bicicletta: cosa relativamente facile e possibile nel viaggio di andata, ma non altrettanto in quello del ritorno, tutto in forte salita.
Vale inoltre la pena, per chi conosce quei luoghi, di precisare che allora per Agnone esisteva solo la strada più lunga, quella che costeggia il piccolo santuario dedicato a “Sant’Onofrio” con un certo dislivello da superare: in cui, peraltro, ero un po’ svantaggiato rispetto all’amico Nando che disponeva di una bicicletta sportiva, molto più leggera e moderna della mia.
Accadeva così che, dopo aver mangiato solo un panino, fossimo poi costretti a far caricare i nostri gloriosi mezzi a due ruote sul vecchio autobus che ci riportava a casa; e, può sembrare davvero incredibile, ma l’unico modo per farlo era di utilizzare una scaletta posteriore perché l’unico, vero bagagliaio si trovava sul suo tetto. Era già una fortuna che dovessimo andare su e giù solo 2-3 volte a settimana e per un periodo abbastanza breve ma, in tutta sincerità, quella che avevamo vissuto come un castigo, divenne invece una preziosa esperienza formativa: suggellata, per di più, da un’ottima prova autunnale e da una splendida votazione.
Così, tanto per tornare scherzosamente alla mia nipotina, è comprensibile la sua incredulità per quanto le ho raccontato e che ora ho voluto riassumere in un raccontino; pur sapendo inoltre che, per averlo percorso in macchina, lei conosceva bene il percorso stradale attuale tra Capracotta e Agnone, non è stato facile farle comprendere che nel passato remoto, per le più diverse esigenze esistenziali, i cittadini di Capracotta erano costretti a raggiungere sui sentieri di campagna la cittadina di Agnone: a piedi naturalmente oppure, i più fortunati, a cavallo.
Aldo Trotta