Il cortile del lieo classico “Mario Pagano”
Come ho già detto più volte, mi vado pian piano convincendo che non è poi così frustrante riandare con la memoria al proprio passato, anche molto remoto, e soprattutto che ciò non significa ripiegarsi su sé stessi lasciandosi travolgere dalla nostalgia; proprio ieri, guarda caso, leggevo una bellissima frase del professor Alessandro D’Avenia che mi ha ulteriormente sostenuto nello sforzo di valorizzare ogni stagione della vita: anche quella, come la mia attualmente, in cui sembra impossibile ogni spiraglio di ottimismo:
“La malinconia non è un sentimento triste, ma la spina dell’infinito nel cuore dell’uomo, il segno di una rosa da cercare poco sopra lo stelo, in definitiva una mancanza molto promettente”.
Sull’onda di queste parole ho nuovamente cercato di rivivere, attualizzandolo nel mio pensiero, un frammento del passato più sereno: sempre cogliendo un’occasione che ha fatto brillare i miei ricordi e contribuito a mitigare la tristezza del presente; questa volta la mia attenzione è stata attirata da una vecchia foto dei primi anni ’60 scattata nel cortile interno dello storico Liceo Classico “Mario Pagano” di Campobasso che io ho frequentato dal 1957-58 al 1961-62; la stampa era purtroppo abbastanza sbiadita e danneggiata, ma ho riconosciuto i professori e quasi tutti miei compagni, pur essendo stato impossibile restare in contatto con la maggior parte di questi ultimi: per di più nel timore, stante la mia fascia di età, che purtroppo alcuni, mi auguro pochi, siano ora scomparsi.
Di ognuno dei docenti, che ho rivisto con simpatia e commozione, potrei parlare a lungo cercando anche di spiegare le ragioni per cui mi sono sempre sentito in grandissimo debito di gratitudine nei loro confronti, ma sarebbe impossibile farlo in poche righe; mi piace solo accennare alla loro malcelata
delusione quando appresero che era mio desiderio iscrivermi alla facoltà di medicina: erano tutti del parere, infatti, che io fossi più portato per gli studi umanistici e per le lettere classiche ma, per inciso e dopo tanti anni, non sono pentito di quella scelta.
Al contrario, ancor più che nel Disegno durante la Scuola Media, era assai deludente il mio profitto in Educazione Fisica, disciplina in cui non si può certo dire che avessi mai brillato; in quel Liceo, oltre tutto, si dava spazio a settori molto lontani dalle mie attitudini, ad esempio lo sport della “pallacanestro” in cui diversi miei compagni erano dei veri campioni; perciò non posso certo dire che il mio insegnante, il compianto professor Carlo Ciaccia, avesse granché di cui complimentarsi fino a quando, del tutto imprevedibilmente, riuscii a recuperare un po’ della sua considerazione.
Accadde infatti che il nostro Istituto partecipasse a un piccolo campionato scolastico regionale di “Sci alpino” e, in quegli anni remoti, in tutto il Molise non esistevano impianti sportivi degni di questo nome: non c’era nulla, in assoluto, anche a Campitello Matese; perciò, sia pure con alcune difficoltà logistiche e organizzative, fu quasi scontato che ci trovassimo a Capracotta in cui, per antica tradizione, era già molto affermato e diffuso lo “Sci di Fondo”; ricordo peraltro che, per proseguire gli studi, era stato inevitabile che abbandonassi quell’amato paese per risiedere con la mia famiglia a Bojano: quotidianamente infatti, raggiungevo la scuola da pendolare a Campobasso.
Nel 1960, concluso il Ginnasio, stavo frequentando il primo anno di Liceo e tutto andò ben oltre le mie aspettative nella gara del 28 febbraio: una stupenda giornata di sole con tantissima neve e con la pista, ben disegnata e battuta, che partiva dal “monte Ciglione”, scendeva nel valico della “Selletta” e infine, dopo la “Fonte di Carovilli”, terminava quasi a ridosso di “Prato Gentile”.
Era prevista una prova abbastanza impegnativa, a metà tra la discesa libera e lo slalom gigante, ed io non ero certo tra i favoriti: tanto meno nel gruppetto di amici compaesani provenienti da altre scuole della regione ma, non so per quali imprevedibili circostanze, mi trovai ad essere primo in classifica; non credevo naturalmente ai miei occhi, specie quando mi misero al collo una medaglia dello storico Sci-Club di Capracotta alla presenza del professor Ciaccia che si dimostrò quanto mai compiaciuto della mia prestazione.
Due giorni dopo, infatti, mi raggiunse in classe e volle che andassi con lui dal Signor Preside, il compianto professor Giuseppe Di Geronimo, perché fossi io a consegnargli una splendida coppa con il mio nome inciso accanto a quello dell’Istituto; mi sarebbe piaciuto e mi piacerebbe tanto rivedere quel piccolo trofeo, ma non è mai stato possibile e ho solo gelosamente custodito quella medaglia: non possiedo, purtroppo, neppure una foto di quei momenti indimenticabili.
Dopo questo brillante risultato, sarebbe stato bellissimo replicarne il successo l’anno seguente: ma temevo già che sarebbe stato impossibile; nel marzo 1961, infatti, la neve era scarsa e accadde che piovesse nel giorno precedente la gara per cui era stato previsto anche un diverso tracciato: che partiva indicativamente, come negli anni molto remoti a Capracotta, dalla zona in cui ora si trova il “Giardino della Flora Appenninica”, scendeva lungo la cosiddetta “Guardata” e terminava a ridosso del “Campo sportivo”.
Io, favorito dal fatto di trovarmi già in loco, raggiunsi prestissimo la pista per cercare di provarne il tracciato e volli farlo sebbene si fosse verificato quel raro evento atmosferico che attualmente viene definito “pioggia congelante”; mi sono un po’ documentato a tale riguardo e del fenomeno esistono alcune varianti come quella chiamata “vetrone” (“lastra di vetro”) che avviene quando la temperatura atmosferica è superiore a 0° gradi, ma la pioggia viene a contatto con una superficie a temperatura molto inferiore. E’ probabile perciò, come forse accadde allora, che la pioggia caduta durante la notte si fosse ghiacciata sullo strato di neve; perciò, sarebbe stato meglio rinunciare, così presto, al ruolo di “apripista” e infatti caddi rovinosamente, quasi non riuscendo ad arrestarmi sulla superficie gelata, ma senza riportare alcun danno tranne una modesta contusione lombare. D’altro canto i robusti guanti mi avevano protetto le mani pur accorgendomi subito che, magari per semplice attrito, si erano estesamente lacerati i miei pantaloni da sci; mi ricordai allora di averne un altro paio nella vecchia casa paterna e perciò, un po’ dolorante ma non infreddolito anche perché indossavo una calzamaglia, corsi a cambiarli cercando di minimizzare la mia imprudenza e riuscendo a tornare su rapidamente; nel frattempo anche la situazione metereologica e soprattutto quella del tracciato erano migliorate nettamente fino al punto da consentire l’inizio della competizione.
Superfluo aggiungere che non ebbi certamente “l’onore del podio”, ma raggiunsi felicemente il traguardo e furono fin troppo lusinghiere le parole del caro professore, di nuovo a Capracotta, per la mia dignitosa gara.
A questo punto, specie con la mia premessa, non posso certo negare che anche questo mio “tuffo nel passato”, così pieno di ricordi e di entusiasmo giovanile, abbia contribuito a distogliermi dalla nostalgia, ma temo che molti non credano fino in fondo alla mia sincerità:
“troppo… favolosi quegli anni del Liceo”
per non rimpiangerli almeno un po’!
Aldo Trotta