Una vecchia foto di Aldo Trotta con la madre Cesarina
Raccontando, come ho fatto spesso, di mia madre Cesarina e della sua professione di ostetrica svolta per tanti anni a Capracotta, ho sempre sottolineato il suo ammirevole sforzo di integrazione: trovandosi a vivere, giovanissima, in un contesto ambientale e soprattutto culturale assai diverso da quello di provenienza; erano infatti talmente diverse le differenze tra regioni del Nord e quelle del Sud Italia, da essere certo che alla mamma, originaria dell’Emilia-Romagna, sarebbe piaciuta l’idea di rassomigliare alla giovane donna del monumento all’emigrante nel nostro paese: quello che si trova davanti al Santuario della Vergine Maria.
Ancora una volta, come sempre, è stata un’occasione imprevista a suggerirmi le riflessioni di oggi; mi è capitata, infatti, tra le mani una vecchia rivista “Noi donne” con un articolo del febbraio 1956 che documentava le grandi difficoltà che si incontravano a Capracotta in quei remoti anni del dopoguerra: di cui, la mamma, con la sua storica professione, rappresentava quasi uno specchio.
Io, avendo allora meno di 13 anni, ricordavo appena di quell’inserto giornalistico e, ancor meno, della foto in esso contenuta pur essendo stato presente quando gliela scattarono; le incredibili nevicate di quell’anno sono rimaste nella memoria collettiva e si può immaginare quanto grande fosse stato il disagio in un periodo in cui, temporaneamente, non era nemmeno possibile utilizzare lo spartineve giunto in dono, anni prima, dagli Stati Uniti.
Senza dubbio la gradinata antistante la nostra casa, cui nostalgicamente ho dato il nome di “Rufa della Saudade”, era letteralmente sepolta dalla neve e così non ho potuto fare a meno di riflettere a quella singolare immagine della mamma che, per quanto ricordi, di solito non utilizzava lo scialle nero della tradizione femminile a Capracotta; quel giorno era ancora in corso, sia pure attenuata, una tormenta che gliene scompigliava le frange facendo pensare a una persona anziana che, appena riconoscibile, arrancava faticosamente. Va precisato invece che la mamma, giunta in paese nel 1937, aveva allora meno di 44 anni ed era assolutamente assuefatta a quel tremendo clima invernale.
Sta di fatto che quei giornalisti, dopo una regolare intervista, non avevano esitato a dare al loro articolo l’impronta politica di una protesta per la penosa condizione dei paesi meridionali e di quelli di montagna in particolare; avevano perciò suggerito e utilizzato, a tale scopo, dei veri e propri accorgimenti scenografici per rendere ancor più drammatico e credibile il loro racconto.
Di tutto ciò io sono venuto a conoscenza molto tempo dopo, ma rammento bene il disappunto della mamma preoccupata forse di aver contribuito, sia pure involontariamente, ad arrecare un danno di immagine ai cari concittadini; nello stesso articolo oltre tutto, in cui si faceva riferimento anche ad altre valorose lavoratrici, veniva del tutto ignorato un aspetto di fondamentale importanza: la diffusa solidarietà umana e quindi anche l’atmosfera di grande serenità che, nonostante tutto, si respirava nel nostro piccolo centro.
Ripensandoci ora, credo proprio che la mamma si fosse sentita un po’strumentalizzata nel timore, per di più, che il suo profilo fosse stato descritto come quello di una persona in cerca di notorietà; al contrario, e per giudizio unanime, lei era esattamente il contrario di tutto ciò.
Così, a distanza di tanto tempo, mi sono convinto di una ben diversa chiave di lettura per quanto ho riferito e voglio ricordare brevemente il significato della professione di ostetrica o meglio, come si diceva allora, di levatrice; la sua storia infatti, piuttosto trascurata non solo in Italia, è decisiva per comprendere pienamente il ruolo delle donne e dell’istituzione della famiglia.
Essa fa emergere la complessità, le sfumature e talvolta le contraddizioni dei modelli femminili, fino a giungere molto faticosamente ai moderni concetti professionali; cioè che all’ostetrica è affidata l’assistenza della donna lungo il corso di tutta la sua vita, quindi non solo nascita ma anche pubertà, adolescenza, maternità, allattamento, fino ad arrivare alla menopausa ed oltre.
Ci sono voluti tanti secoli prima di queste conquiste cominciando da quando, nell’antica Roma, la levatrice veniva chiamate “obstetrica”, letteralmente “colei che sta davanti”, per arrivare poi al Medioevo; in questo periodo la sua figura era rispettata socialmente ma, al tempo stesso le sue multiformi prerogative la rendevano ambigua e misteriosa; così non sono mancate, nel tempo, le più diverse accuse anche in merito a presunte stregonerie e sortilegi.
Ho anzi il fondato sospetto che proprio questi fantasmi del passato avessero un po’ contribuito al disappunto della mamma dopo aver letto quell’articolo, ma non c’è dubbio che l’immagine della foto, specie se estrapolata dal suo contesto discorsivo, potesse evocare il profilo inquietante di una strega che, comunque, non le si addiceva certamente; in quello scenario e con quell’abbigliamento, poteva tutt’al più rassomigliare, come la maggior parte delle donne allora, a una “befana” ed è superfluo ricordare che, come degna capracottese di adozione, aveva regalato tanto bene ai suoi concittadini ricevendone in cambio altrettanto o forse molto di più.
Tornando a quella foto, spaventano ancora le frequenti occasioni in cui durante una tormenta di neve, sia pure con l’aiuto di qualcuno, alla mamma occorreva tanto tempo anche per coprire poche centinaia di metri e raggiungere una puerpera; lo raccontava spesso e, parlando magari di un maschietto che trovava già nato e vitalissimo, diceva scherzando:
“Quando sono, finalmente riuscita ad arrivare, non aveva più bisogno delle mie cure perché era già partito per il servizio militare!”
A conclusione delle odierne riflessioni, mi piace ancora ricordare un episodio del 1989, molto tempo dopo che di necessità la mamma si era trasferita a Bojano con la famiglia; un giorno di settembre, affacciandosi alla finestra, vide un minibus stracarico di persone che stava parcheggiando davanti a casa. Non tardò a rendersi conto che i suoi chiassosi passeggeri erano “bimbi e bimbe” che, come le piaceva dire, aveva “aiutato a nascere” 50 anni prima, nel 1939; le portarono in dono un orologio da polso, da lei poi sempre indossato, con una bella incisione in cui si leggeva:
“Per Cesarina, la nostra cara…mammina”
A Capracotta, infatti, era questa la dolcissima parola dialettale che significava “levatrice”.
Aldo Trotta