Pale eoliche a Monte Forte. Foto: Emilio Di Lullo (2014)
Nell’inquietudine che mi caratterizza ormai da tempo, ho spesso l’esigenza di cercare documenti o testimonianze del passato che, quasi per incanto, sembrano aiutarmi a mitigare la nostalgia per il paese in cui sono nato; è il caso di questi giorni in cui ho voluto rileggere un mio vecchio racconto comparso sulla rivista, pubblicata per alcuni anni a Capracotta, che si chiamava “Vòria”.
Ho riflettuto, perciò, a questo nome pensando che non era stata certo casuale la sua scelta; “Vòria” è infatti il vocabolo dialettale che indica il più famoso e forse il più temuto dei venti che spirano in paese: la cosiddetta “Borea” (o Βορέας) ovvero il “vento di tramontana” tradizionalmente associato alle “tormente di neve” di cui è sempre stato l’indiscusso e capriccioso regista; e che anch’io avevo cercato di raccontare, una volta, riprendendo le parole del caro e compianto Domenico D’Andrea:
“il vento (la Vòria) sibilava fischiando nelle fessure e sotto le porte… e immaginavo che un genio furioso e scatenato, intromessosi in casa, fosse pronto a spazzare via tutto”.
È stato inoltre molto emozionante rileggere la poesia di Giovanni Pascoli intitolata “Il Vento”:
“Nell’aria grigia e morta
c’è un’onda di lamento,
qualcuno urta la porta:
— Avanti! passi! — È il vento:
vento del Nord che porta
e neve e fame e stento…”.
Ignoravo, per di più, che il 15 giugno ricorre la “giornata mondiale del vento” le cui finalità, che io sappia, sono in prevalenza rivolte alla diffusione e all’utilizzo delle cosiddette “energie rinnovabili”; così ho fatto il tentativo di migliorare le mie povere nozioni sui venti: a cominciare dal fatto che la Vòria, nonostante l’appellativo molto simile, non coincide con la “Bora” così famosa a Trieste, ma soffia dai quadranti nordorientali; il vento, dal latino “ventus”, è un fenomeno causato dalla differenza di pressione atmosferica che spinge l’aria da un’area con alta pressione, anticiclonica, ad una di bassa pressione, ciclonica. Non si tratta solo un fenomeno atmosferico, ma è qualcosa di esistenziale che ha persino consentito all’uomo, nel corso dei secoli, di navigare e di scoprire nuovi continenti; è naturalmente impossibile riassumere il percorso che ha condotto alle attuali conoscenze scientifiche ed è pure molto complessa la mitologia greca in cui il vento veniva chiamato “άνεμος”, (ànemos): da cui il nome di “anemometri” per gli apparecchi che ne registrano la velocità.
Di “Eolo” si narra che, nato mortale e poi diventato una divinità, raggiungesse le isole Eolie dopo aver ottenuto da Zeus il potere di “dominatore dei venti”; lo schema che ne indica la direzione, come è noto, si chiama “Rosa dei Venti” e, nell’antichità, era centrata sull’isola di Zante, mentre la tradizione romana la collocava al Centro del Mediterraneo, nei pressi dell’isola di Malta. In maniera molto sintetica è possibile indicare l’etimologia dei loro nomi nella maniera seguente:
Tramontana che spira dal Nord, dai quadranti settentrionali
Grecale (Greco o Bora), che spira dai quadranti Nordorientali e si chiama così perché, rispetto al punto originale della Rosa dei Venti, proviene dalla Grecia
Levante (oppure Oriente, o Euro), che spira dai quadranti Orientali e si chiama così in quanto proviene dal punto cardinale da cui si genera
Scirocco che spira dai quadranti Sudorientali e prende nome dalla Siria.
Ostro: che spira dai quadranti Meridionali e prende nome dall’emisfero Australe da cui proviene
Libeccio: che spira dai quadranti Sudoccidentali e si ritiene provenga dall’arabo Lebegche significa portatore di pioggia; viene pure chiamato Garbino sulle coste del Veneto, Emilia Romagna, Marche e Abruzzo.
Ponente (oppure Occidente o Zefiro) che spira dai quadranti Occidentali e trae il suo nome dalla direzione del calar del sole.
Maestrale (o Mistral), che spira dai quadranti Nordoccidentali.
L’origine più accreditata del termine “tramontana” è che derivi dall’espressione latina “trans montes”, cioè al di là dei monti, riferita al fatto che spira dalle Alpi, ma altre etimologie si correlano a diverse tradizioni locali; anticamente veniva utilizzato anche per stabilire la rotta verso Nord, in sostituzione delle stelle dell’Orsa durante le tempeste e il modo di dire “perdere la tramontana” significa appunto smarrire l’orientamento.Secondo un’altra tesi,il nome deriverebbe dal paese di “Tramonti” che apparteneva alla repubblica marinara di Amalfi e successivamente questo nome si sarebbe diffuso con le bussole che gli amalfitani adottarono per primi.
Tornando ora all’interesse per l’energia eolica, mi piace sottolineare che Capracotta può vantare il primato di averla sfruttata, molto avveniristicamente, già all’inizio del secolo scorso: allorquando venne inaugurata una moderna “Segheria” per il legname il cui motore utilizzava, appunto, la forza del vento; e su quella funzionale struttura ha egregiamente riferito il caro amico Giuseppe Sammarone, pronipote del primo proprietario, Donato Antonio Sammarone:
“Il motore a vento, nome con cui i miei antenati chiamarono l’impianto eolico, era costituito da un castello interamente realizzato con tralicci di legno ancorati al terreno, da una ruota, formata da otto raggi che sorreggono altrettante pale realizzate in lamiera zincata, da un rotore in acciaio e da un braccio, anch’esso in lamiera, preposto a individuare la direzione del vento”.
Della sua lunga storia, conclusa solo nel 1956, è quasi paradossale il fatto che fu proprio la violenza del vento a scardinarne, ripetutamente, la storica intelaiatura iniziale; si legge infatti che:
“Il castello in legno fu abbattuto per due volte dalla furia del vento, tanto che l’impianto rimase inutilizzato dal 1916 al 1937, anno in cui, per la terza volta, fu ricostruito, interamente in acciaio”;
ora, proprio alcuni giorni or sono ho avuto occasione di percorrere in macchina la strada provinciale che attraversa, a Capracotta, il grandioso parco eolico in località “Monteforte” di cui, per così dire, la vecchia “segheria a vento” sipuò considerare un’illustre “antenata”; mi sono fermato ad osservare, davvero ammirato, il vorticoso turbinio delle pale proprio nel punto in cui nel passato il nostro vento, la “Voria”, accumulando metri e metri di neve, provocava tanti danni e disagi: e riflettevo che adesso, invece, è stato almeno possibile ricavarne una preziosa fonte di energia per tutti.
A questo punto, è superfluo che lo ripeta, ci sarebbe tanto altro da raccontare se non temessi, naturalmente, di riuscire oltremodo noioso; mi piace quindi concludere con un simpatico aneddoto che, lo ricordo bene, faceva sempre sorridere mio padre Ottaviano; un suo caro amico e coetaneo, infatti, di nome Francesco (per tutti “Ciccariegl”), raccontava della prima occasione ufficiale in cui fu invitato a cena dai futuri suoceri che abitavano a Capracotta, ma lontano dalla sua abitazione. Rientrò perciò molto tardi a casa sua nei pressi della piazza, a ridosso dell’antica “torre” ora purtroppo demolita, di cui era caratteristico un grande orologio rotondo con il quadrante a vista; imperversava una grossa tormenta di neve e quel buontempone di Francesco pretendeva di far credere a tutti che, avendo dimenticato di agganciare la borchia del suo “mantello a ruota”, il vento impetuoso glielo avesse portato via facendolo restare sospeso alle robuste lancette che segnavano la mezzanotte; ancor più incredibilmente, poi, sosteneva di aver dovuto attendere fino alle ore 6 del mattino perché l’orologio glielo restituisse: ma gli si leggeva nel volto che era stato il suo entusiasmo giovanile, unitamente alla gioia per il fidanzamento a suggerirgli questa favola ed a consentirgli di sconfiggere idealmente persino la tremenda “Voria” di Capracotta.
Aldo Trotta