L’impatto imprevedibile della solitudine sulla vecchiaia

Panorama di Capracotta (1921). Archivio fotografico: Cav. Giovanni Paglione

Avevo previsto che, dopo la parentesi di un prolungato soggiorno a Capracotta, il paese in cui sono nato e vissuto fino all’età di 16 anni, sarebbe inevitabilmente riaffiorata la penosa sensazione di disagio che ormai, purtroppo, fa quasi parte di me: sia pure con uno strano andamento altalenante, accresciuto forse dall’impossibilità di fare stabilmente ritorno alle mie radici.

Così ho la spiacevole impressione di sentirmi quasi come un apolide, uno che comunque ha smarrito la sua strada; in altri termini mi accorgo di combattere, ogni giorno di più, non tanto e non solo con il sentimento della nostalgia in tutte le sue accezioni, ma anche con quello della “solitudine”.

Questo termine, dal latino “solitudo-inis”, non indica esclusivamente la mancanza di una compagnia fisica, ma può essere riferito sia a una condizione esistenziale involontaria sia, sebbene meno frequentemente, a una scelta di vita; a tale proposito la lingua inglese si è dimostrata molto più precisa della nostra nell’utilizzo dei termini: “solitude” che significa isolamento fisico come frutto di una decisione personale, mentre la parola “loneliness” indica piuttosto la solitudine interiore.

«O beata solitudo, o sola beatitudo!»

molti certamente conoscono questa espressione latina («o beata solitudine, o unica beatitudine»), attribuita a san Bernardo, che esalta la vera serenità spirituale raggiungibile solo nel silenzio della vita monastica; ma la solitudine può essere anche una condizione molto negativa, anticamera della malinconia e della depressione intese nel loro significato psichiatrico più deteriore.

Mi rendo ora conto che è difficile prevedere e quantificare l’impatto della solitudine e delle sue varianti sulla mia vita, specie trovandomi nell’età più avanzata; ma, considerando la mia esperienza, è superfluo sottolineare che non si tratta, ovviamente, di un isolamento da emarginazione né, tanto meno, da vocazione monastica e neppure da mancanza di compagnia. Non è infrequente tuttavia che nonostante la vicinanza e le premurose attenzioni delle mie figlie e delle loro famiglie, io avverta anche il disagio della solitudine vera: specie dopo la scomparsa di mia moglie che, pur affetta da una grave patologia neurodegenerativa, sembrava tenermi ancora…tanta compagnia. Esiste infine una forma più rara di solitudine e cioè quella di grandi artisti come Leonardo Da Vinci che, a ragion veduta, diceva:

“E se sarai solo, sarai tutto tuo”,

il che significa che in persone speciali la solitudine, da condizione negativa, può trasformarsi in una grande occasione di creatività.

In definitiva, come in altre occasioni, ho sentito l’impulso di fare chiarezza nella mia mente sempre purtroppo riconoscendo di non possedere gli strumenti minimi, di cultura e di preparazione, che mi potessero realmente aiutare; a tutto ciò si è aggiunta la recondita, velleitaria speranza di minimizzare gli effetti negativi della solitudine esaltandone, al tempo stesso, quelli positivi.   

Di un recente articolo su Leonardo Da Vinci del giornalista-scrittore Federico Rapini mi hanno molto colpito le affermazioni seguenti:      

  •    La solitudine offre l’opportunità di una profonda riflessione; essa è uno spazio in cui possiamo connetterci con noi stessi ad un livello più intimo, esaminare la nostra vita e i nostri valori e assumere decisioni che rispecchiano la nostra vera natura.
  •    la solitudine può essere una fonte di forza perché, cessati gli impegni della vita sociale e lavorativa, ci può aiutare a costruireresistenza psicologica associata a una comprensione più profonda di noi stessi e del mondo che ci circonda
  •    invece di vederla come un vuoto angosciante, possiamo riconoscere nella solitudine uno spazio da esplorare, un luogo dove possiamo essere realmente noi stessi
  •    ritagliarsi momenti di solitudine può diventare un baluardo contro la smisurata mole di informazioni che ci sommerge nell’era digitale e un modo per salvaguardare la nostra salute mentale ed emotiva.

Riassumendo,  nonostante queste premesse non posso certo dire di aver fatto chiarezza nell’arcano della mia solitudine ed anzi, per molti aspetti, mi sembra persino di essere più perplesso; sono tuttora troppe, infatti, le occasioni in cui ho la netta impressione di non riuscire a sfruttare le potenzialità positive della solitudine interiore restando invece sempre esposto all’assalto insidioso di quella esteriore: quella, per intenderci che, stando da solo, rende  spesso interminabili le ore della giornata e peggiora moltissimo il tono del mio umore.

A tale proposito anzi, sebbene io non ami i luoghi affollati e chiassosi, ho verificato che talora mi spaventano persino il silenzio e la solitudine reali che adesso, fatta eccezione per alcuni periodi, prevalgono anche a Capracotta: e che, paradossalmente, mi pareva di desiderare moltissimo fino ad alcuni anni fa; a questo punto, perciò, non posso che convincermi della difficoltà, forse insuperabile, di sfruttare a mio vantaggio ogni complesso ragionamento: rischiando, oltre tutto, di accrescere la mia confusione e il mio disagio piuttosto che riuscire a mitigarli.

Così ancora una volta imprevedibilmente, mentre cercavo dei componimenti dedicati alla solitudine, mi sono provvidenzialmente imbattuto nella poesia di Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri) intitolata “Ave Maria”. Nella sua disarmante semplicità, esaltata dal dialetto romanesco, essa recita così:

“Quann’ero ragazzino, ­mamma mia,
me diceva: “Ricordati­, figliolo,
quando te senti veram­ente solo
tu prova a recità ‘n’­ Ave Maria.
L’anima tua, da sola,­ spicca er volo
e se solleva, come p­è maggia”.
Ormai so’ vecchio, e­r tempo m’è volato;
da un pezzo s’è addor­mita la vecchietta,
ma quer consijo non ­l’ho mai scordato.
Come me sento veramen­te solo
io prego la Madonna b­enedetta
e l’anima da sola pij­a er volo!”
.

A tale proposito nessuno me ne vorrà se, pur considerandolo superfluo, ne aggiungo la traduzione in italiano:

“Quando ero un bambino, mia madre
mi diceva: “Ricordati, figliolo,
quando ti senti veramente solo,
prova a recitare un’Ave Maria.
La tua anima spicca il volo da sola
e si solleva, come per magia”.
Ormai sono vecchio, il tempo è volato;
da un pezzo (lett. la vecchietta) mia madre non c’è più
ma quel consiglio non l’ho mai scordato.
Quando mi sento veramente solo
io prego la Madonna Benedetta
e la mia anima da sola prende il volo”
.

A questo punto, da profano di psicologia ma senza nulla togliere alla sua innegabile importanza, non posso che riconoscere l’immenso beneficio soggettivo di questi versi tutt’altro che infantili: e che a me sembrano molto più rasserenanti e persuasivi di tante complicate dissertazioni scientifiche e dottrinali.

Aldo Trotta