Analogie e differenze tra il dialetto napoletano e il capracottese

La vita vissuta in Campania, a non molti chilometri da Napoli, e l’interessamento, non certo da esperto filologo, del dialetto del mio paese natio, mi hanno spinto a curiosare, senza alcuna velleità, su analogie e differenze tra i due vernacoli. Curiosità nata sfogliando due vocabolari del dialetto napoletano (S. Zazzera, Dizionario Napoletano, N. Compton, 2022 e R. Andreoli, Vocabolario Napoletano-Italiano, Berisio, 1966), nei quali, soffermandomi e analizzandoli nel numero di 1000 elementi, ho potuto riscontrare, appunto, quanto nell’intestazione della presente nota.

Ne è derivato che solo per 38 termini dialettali si è potuto rilevare la differenza tra la identica parola in vernacolo e il diverso significato in italiano; es. “furcina”: forca, bidente a Napoli (Andreoli), forchetta a Capracotta; “rocchia”: stormo, branco a Napoli (Andreoli), siepe a Capracotta. Tra gli altri 962, alcuni aventi uguale grafia e identico significato in italiano; esempio, “nasca”: narice napoletana (Andreoli) e “nasca” capracottese; “fellata”: affettato napoletano di prosciutto, salame ecc. (Andreoli) e “fellata” capracottese. Altri con differente grafia, ma con eguale significato in italiano e senso traslato; es. “càmmara”: stanza, camera a Napoli (Andreoli) e “cambra” a Capracotta; “cenisa”: cenere napoletana (Andreoli) e “cienicia” nel vernacolo capracottese. Altri ancora senza alcuna assonanza tra loro; es. “‘ncòppa”: sopra (Andreoli) a Napoli, “ad ald” a Capracotta; “ccà”: qui, qua napoletano (Andreoli), “ècch” col medesimo significato capracottese.

Non potevano non esserci, circa la lingua, immancabili analogie insieme a differenze, in relazione a quella che era stata la storia della nostra comunità, suddita per vari secoli di una monarchia che, per sede di capitale, aveva Napoli. Capracotta, estremo lembo del Regno; «…in un Molise, isola dispersa e ottenebrata di meditazione e di silenzio» (L. Pietravalle- Le Catene), che, per forzate diverse necessità, motivi di lavoro, soluzioni di faccende varie, rapporti con funzionari reali, insieme a tante altre diverse problematiche, non poteva svolgere una vita, comunque lontana dalla realtà napoletana, complicata, tra l’altro, per una non breve distanza, da un sistema viario fatiscente dei tempi andati.

Differenza di linguaggio dovuta a cause diverse con due tipi di parlata: un dialetto “cittadino, colto” (F. D’Ovidio) quello napoletano, lingua, quale “riflesso della persona” (F. D’Ovidio) e della realtà  geografica abitata con caratteri sociali e culturali maggiormente emancipati,  non certamente simili a quelli della nostra comunità “isola dispersa” dell’epoca in cui, invece, era parlato, quale prodotto locale, un “dialetto rustico, volgare” (F. D’Ovidio), in considerazione di quella che era la struttura e la condizione della nostra realtà, dissimile certamente da Napoli.

E, per quanto asserisce il filologo e critico letterario Francesco D’Ovidio (Campobasso 1849- Napoli 1925), il nostro dialetto è identificato “vecchio” alla luce della prevalente presenza di “dittonghi” nel contesto della parola, rispetto a quello napoletano; per es. a Napoli “càccavo” e “cafè” caldaia e caffè, “cuàccave” e “cuafè” a Capracotta, oltre ad altre diverse differenze.

La  diversità di accenti acuti o gravi sulle vocali e ed o, con pronunzia aperta quella napoletana, rispetto alla nostra che risulta stretta, per es. “putéca”, bottega e putèca, “ròbba”, roba, averi e róbba; la finale di un sostantivo maschile singolare nel vernacolo napoletano è o, nel nostro, invece, è e semimuta, che, come tale quando appare pure nel contesto del termine, è indicata da alcuni autori nella forma speculare capovolta da destra a sinistra (shewa); la consonante p e t, dopo le nasali m ed n, diventa b e d; es. “mantile”, tovaglia, mandile, “mantèca”, burro, mandèca; “campusànto”, cimitero, “cuambèsande”; nel nostro dialetto; tra le consonanti “st” e “sd” compare una “c” nel contesto della parola, attribuendo ad essa un suono labio-gutturale, es. “stòmmaco”, stomaco, “stòzza”, tozzo di pane, “sdanga”, stanga a Napoli, sctommàche, “sctòzza” e “scdanga” a Capracotta, oltre ad aferesi, elisioni, assimilazioni ecc., insieme a pronuncia indistinta di parole,relativamente al grado di acculturazione del soggetto parlante, senza, però, inciderne la comprensione.

Da quanto sopra, per il confronto fatto con il vernacolo napoletano, si è osservato, quindi, che il nostro- a parte le sue regole grammaticali e lessicali- risulta, per alcuni versi, dissimile da questo. La nostra, quale lingua “intermedia del dialetto meridionale” (A. de Benedetti – M. Genga, E ora, l’italiano, Laterza, 2011), si scopre parlata in altri tempi, anche se con aggiornate sopraggiunte novità, in un ambito” ristretto e primitivo” (F. D’Ovidio). È il vernacolo di una comunità storicamente lontana da frequenti contatti con altre realtà, figlio del grado di cultura di un antico passato.

Resta, comunque, un idioma melodioso, inconfondibile e caratteristico fin dai tempi remoti, perpetuato fino ad oggi.

Felice dell’Armi