Il professor Antonio Cardarelli e i valorosi medici del passato

L’ospedale Cardarelli di Napoli

Ricordo che già tanti anni fa, quando frequentavo a Campobasso il Liceo Classico Mario Pagano, mi chiedevo chi fosse il professor Antonio Cardarelli e perché l’ospedale di quella città, nonché uno dei più importanti a Napoli, fossero a lui intitolati; non immaginavo, neppure lontanamente, che si trattasse di un famoso corregionale né, tanto meno, che fosse nato nel piccolo comune di Civitanova del Sannio, ora in provincia di Isernia. Appresi solo in seguito dei suoi legami con il mio paese di nascita perché una sua nipote aveva sposato un nostro illustre concittadino, Luigi Campanelli e le cronache riferiscono di un suo storico viaggio a Capracotta il 25 ottobre 1885; venni poi a sapere della grandissima venerazione nei suoi confronti da parte della popolazione al punto che, per la sua straordinaria fama professionale, gli era stato attribuito l’appellativo di “taumaturgo di Civitanova”. Si racconta persino che, quando dalla città di Napoli in cui risiedeva tornava nel suo paese per le vacanze estive, in occasione della festa patronale la banda musicale smetteva di suonare in piazza quando la finestra del suo balcone si chiudeva: nessuno si sarebbe mai permesso di disturbare il riposo del Professore; sta di fatto che, specie dopo aver cominciato a frequentare, nel 1962, la facoltà di Medicina, ebbi modo di conoscere meglio la figura di questo grande luminare nonché impareggiabile insegnante per diverse generazioni di medici: scomparve infatti in età molto avanzata, a 96 anni, nel 1927.

Così non fui sorpreso di imbattermi spesso nel suo nome durante il corso di studi universitari, in modo particolare affrontando la disciplina della Patologia Medica: di cui faceva parte integrante la cosiddetta “Metodologia clinica” tanto cara, e giustamente allora, ai miei insegnanti.

Risale a quel periodo l’apprendimento dei diversi segni clinici descritti da Antonio Cardarelli, a cominciare forse dal più importante: quello che consentiva di sospettare, con il semplice esame obbiettivo del paziente, la presenza di un aneurisma dell’aorta; a tale proposito è doveroso ricordare che, in quegli anni remoti, era purtroppo frequente la cosiddetta “aortite luetica” (per infezione da “treponema pallidum”), caratterizzata da infiammazione e progressiva dilatazione dell’arco aortico: il che conduceva spesso, alla catastrofica rottura spontanea della grossa arteria ed a morte improvvisa.

Non voglio certo abusare del linguaggio tecnico ma cerco di riassumere in che cosa consiste il famoso “segno di Cardarelli”; all’ispezione si può rilevare una pulsazione anomala laringo-tracheale sincrona con la sistole cardiaca, che fa appunto sospettare l’aneurisma; alla palpazione poi, facendo pressione sulla cartilagine tiroidea e spostandola alla sinistra del paziente, aumenta il contatto tra il bronco sinistro e l’aorta e tutto ciò, in presenza di un aneurisma, fa sì che la patologica pulsazione arteriosa venga rilevata in superficie.

So bene che ora forse sorridiamo di queste vecchie nozioni disponendo di sofisticati sistemi di diagnostica per immagini, ad esempio l’Angiorisonanza magnetica e tanti altri ma bisogna immaginare quanto fosse povera di mezzi e di cure la medicina a fine ‘800-inizio ‘900; è comprensibile, perciò  l’estrema, direi vitale importanza della “semeiotica”, dal greco antico σημεῖον (sēmêion) che significa “segno”, e dal suffisso -iké, (“relativo a”): è questa, infatti, la disciplina che studia i sintomi e i segni clinici, purtroppo un po’ trascurata negli ultimi decenni di prodigio tecnologico.

Si è forse caduti nell’errore di pensare che il medico, inteso tradizionalmente, abbia ormai un ruolo pressoché marginale; al contrario, per unanime ammissione, resta di grandissima importanza la cosiddetta “intuizione clinica” che qualcuno si ostina ancora a chiamare “occhio clinico”: essa si può definire “un’abilità cognitiva di natura intellettuale ed a-logica che si manifesta in modo improvviso e senza il ricorso al ragionamento”; ed è proprio quest’ultima, io credo, l’abilità straordinaria che possedeva Antonio Cardarelli ma di cui, a maggior ragione, bisognerebbe favorire l’apprendimento al giorno d’oggi; ma sono di grandissimo ostacolo gli stili di vita e di lavoro attuali, specie nella frenetica attività che ora caratterizza il mondo moderno.

A proposito del percorso diagnostico molti avranno sentito parlare di un approccio “centrato sulla malattia” (“disease center”) che viene appunto preferitoper ragioni di tempo e di sbrigatività, ma che in effetti si rivela spesso molto deludente; non è casuale, infatti, che la medicina di oggi stia faticosamente tentando di tornare a un approccio “orientato sul paziente” (“patient center”); questo consente, oltre tutto,  di ottenere risultati assai migliori anche dal punto di vista del rapporto medico-paziente, ma a condizione che non si continui a privilegiare una preparazione esasperatamente specialistica a danno, purtroppo, di quella olistica e generale.

Nella mia, pur modesta ma lunga esperienza ospedaliera, ho sperimentato che le maggiori soddisfazioni professionali in ambito diagnostico  derivano, ancor prima che dalla visita o dai più sofisticati esami strumentali e di laboratorio, dalla semplice storia clinica dei pazienti: in altri termini dalla capacità di raccoglierne l’“anamnesi”; aggiungo per inciso, ma dovrebbe essere scontato, che un più corretto approccio metodologico consentirebbe anche un risparmio enorme di risorse economiche, magari persino accorciando senza rischio la durata delle degenze ospedaliere.

Personalmente sono convinto che  potrebbe persino ridursi la frequenza di quei deplorevoli episodi di aggressione verbale o fisica nei confronti del personale sanitario cui ci hanno purtroppo abituato le cronache degli ultimi tempi; come sempre, fanno più rumore le notizie e le persone cattive rispetto a quelle buone che pure, grazie a Dio, credo siano tuttora in maggioranza; io non dimentico, tuttavia, l’espressione scherzosa, ma pungente di mia nonna Guglielma, che pure mi aveva sostenuto moltissimo nell’impegnativa scelta della facoltà di Medicina.

Quando ebbi certezza di poterla frequentare, dopo essersi congratulata con me, mi prese in disparte e mi disse sorridendo:

   “Sai quale sarebbe stato il beneficio maggiore degli uomini se non fossero stati così stolti da farsi cacciar via dal Paradiso terrestre? Avrebbero avuto la fortuna di non conoscere mai un medico!”:

 ed era quanto mai eloquente che non si riferisse alle malattie ma, guarda caso, ai medici.

Ora la mia potrebbe forse essere scambiata per una “difesa d’ufficio” della categoria professionale cui ho l’onore di appartenere, ma non è assolutamente così; infatti il mio pensiero di immensa gratitudine si rivolge non tanto e non solo a personaggi illustri e famosi come il prof. Cardarelli, ma all’intelligenza e al sacrificio di tanti altri colleghi; restando nei confini del nostro piccolo Molise come potrei dimenticare, ad esempio, il Dottor Vincenzo Tiberio di Sepino che ha scoperto la penicillina nel 1895 e cioè 35 anni prima di Alexander Fleming? Oppure il Dottor Francesco Paglione di Capracotta, Medaglia d’oro al merito della Sanità per l’abnegazione nei confronti di una sua assistita? In ogni caso la mia riconoscenza va a tutti i colleghi del passato che, anche nelle condizioni e nelle sedi più disagiate, tra mille difficoltà, hanno comunque onorato la loro professione.

Quanto a me, sperando di interpretare il pensiero dei colleghi che avranno la bontà di leggere le mie parole, mi piace concludere con una splendida massima di Marcel Proust:

“Una gran parte di quello che i medici  sanno è stato loro insegnato dai malati.”

Sacrosanta verità, anche a mio modesto parere

Aldo Trotta