Il ceppo di Natale

La tormenta si placa. Un raggio di sole filtra, debole, fra le nuvole. La gente esce di casa e guarda le candide creazioni di tre giorni di abbondanti nevicate e di bufera: i cumuli nevosi a picchi, frastagliati come creste, i muri delle case sopravvento imbiancati, i tetti stracarichi di neve con i comignoli imparruccati. Si spala davanti agli usci e alle finestre basse, sepolti nella neve. La gente cammina in fila indiana sulle piste battute dai primi che sono usciti e che hanno fatto da battistrada. La neve fresca cigola sotto le scarpe. È il pomeriggio della vigilia di Natale.

Sentiamo aprire il portone giù, al piano terra. In paese l’uscio di casa non è sprangato e chiunque può entrare senza annunciarsi. Un passo pesante arranca con fatica su per le scale di legno. Apro la porta del pianerottolo per vedere chi sia e per far luce all’ignoto visitatore. È il vecchio compare Ciano che sale, chino sotto un grosso ciocco, che gli grava sulle spalle e che tiene abbrancato con una mano: un ciocco quasi più grosso di lui. Corriamo per aiutarlo, ma ormai è arrivato.

È venuto dunque a farci visita il vecchio compare. Ci ha portato il ceppo, un bel ceppo. Chissà da dove proviene! Dopo il riposo forzato, imposto dalla tormenta, la gente va a far visita a parenti, amici e compari. E poi, oggi è la vigilia di Natale! La bufera doveva pure acquietarsi!

Chi è, anzi chi era il compare Ciano? Era uno di quei rari uomini la cui immagine ti balza sempre davanti quando cerchi un modello per quei valori che sembrano contare sempre meno nella società moderna: l’umiltà, la pazienza, la tolleranza, l’operosità. Essergli stato amico è motivo di onore. “Ecco”, mi dico qualche volta, “mi sarebbe piaciuto essere come compare Ciano, un uomo che alla vita chiedeva così poco: gli bastava un niente per vivere, meno di un cantuccio”.

Aveva fatto tanti mestieri: il contadino, il boscaiolo, il pastore, il carbonaio, il bracciante. Ne aveva ricavato lo stretto necessario per vivere. Il superfluo gli era di troppo: “E che te ne fai?”, diceva. Ora che era divenuto vecchio, accudiva a qualche lavoretto in casa e, quando poteva, nelle giornate buone, andava nel bosco a raccogliere le fascine per il fuoco. Il ciocco lo aveva raccolto durante una delle sue uscite. Nelle sere d’inverno se ne andava alla Società Pastori, un antico sodalizio, a scambiare qualche parola con gli amici.

Di bassa statura, tozzo, pienotto, compare Ciano sembrava come insaccato nel dimesso abito di lana scuro, tessuto forse, chissà quando, nel telaio di casa. Ma il suo tratto buono, onesto, franco, gli conferiva al volto un aspetto simpatico e anche gradevole. Era sobrio, si è detto, e non solo nel mangiare e nel bere; era parco anche di parole: il necessario anche qui. La voce gli usciva come soffiata da un mantice: si vede che faceva fatica.

Nella mia famiglia compare Ciano era di casa. Eravamo legati da una vecchia comparizia, di cui ignoro la genesi, e le comparizie paesane, si sa, si rispettavano e ancora si rispettano.

Torniamo al racconto della Vigilia. Aiutammo il vecchio compare a scaricarsi di dosso il pesante fardello e, nel far ciò, lo rimproveravamo calorosamente ma con tono affettuoso: “Compare, come hai potuto pensare di fare una cosa simile? Venire con un siffatto peso addosso dall’altra parte del paese, con la neve a terra e le piste fresche non ancora battute?”.

Premurosi, lo facemmo accomodare vicino al camino, sbraciammo e avvicinammo la brace perché si scaldasse. Ancora ansante, il vecchio trasse dalla tasca della giacca un grosso fazzoletto a quadri rossi e blu e cominciò ad asciugarsi il sudore che gl’imperlava la fronte.

“Compare, potevi darci almeno una voce da sotto al portone!”, riprendemmo, “Saremmo corsi a darti una mano! La scala è buia e mezzo scassata!”. Il compare, ripreso fiato, ripose il fazzolettone e rispose, evadendo le nostre richieste: “Eh, l’ho tenuto per voi, questo ciocco: ci tenevo proprio a portarvelo per Natale”.

“Ma, compare, non sei più un giovanotto! Hai bisogno di riguardarti!”.

“Beh, fintanto che si può…!”.

La conversazione procedeva pacata e cordiale. Ciano accettò un bicchiere di vino e prese a sorseggiarlo, posando il bicchiere, dopo ogni sorsata, sulla mensola del camino: non volle altro. Ci aiutò a collocare il grosso ceppo sul focolare.

“Ecco, così, davanti la parte più grossa, la testa”, disse, “si deve prima asciugare bene dentro”.

Discorrendo discorrendo, non so come, venne a galla il fatto, a tutti noto nel paese, del lupo e della polenta, che ha dato origine al nome della via dove lui abitava, “Il cotturello”. È il vicolo più esposto alla bora; il sole d’inverno, non vi penetra mai: un budello di ghiaccio. Qualcuno di noi gli chiese, ora che la conversazione s’era fatta morbida, pastosa, se il fatto era avvenuto ai tempi di suo padre.

“No”, rispose, “ai tempi di mio nonno”.

“E che cosa raccontava tuo nonno al riguardo?”.

Ciano cominciò così a narrare la storia: del lupo e della polenta; storia arcinota, ma che in bocca lui, assumeva una colorazione particolare, calda e carezzevole, per cui i personaggi, e lo stesso lupo, sembravano gente di casa.

“Doveva essere una sera come questa, con tanta neve, quando i lupi non trovano niente da mangiare e si spingono allora fino alle prime case. Una donna che abitava nel vicolo, proprio di fianco a noi, fece una bella polenta e, prima di scodellarla, prese il caldaio, il ‘cotturello’, e lo posò sulla soglia di casa perché si raffreddasse un po’. Quando va per riprenderlo, non lo trova più. Lì per lì non sa che pensare. Ma il marmocchietto, un nipotino, che le s’era attaccato alla gonna, come fanno tutti i bimbi quando batte la fianchetta, scorge, come in un lampo, un lupo in fondo al vicolo, che corre col caldaio attaccato al collo per il manico. Il bimbo scoppia a piangere e fa segno con la mano, indicando il fondo. Piange non per paura del lupo, ma per la polenta che se va”.

Era successo proprio questo: un lupo, che vagava nelle vicinanze dell’abitato, spinto dalla fame e attirato dall’odore, s’era avvicinato al caldaio e, visto che c’era qualcosa dentro, s’era messo a lappare l’inusitato pasto. Disturbato sul più bello, se l’era filato, portandosi, attaccato al collo, il caldaio, il cosiddetto cotturello(da cottura), con la polenta ancora fumante.

A primavera, dopo lo scioglimento delle nevi, il cotturello fu ritrovato a valle, sotto il bosco. Da allora il vicolo dove abitava Ciano si chiama “Il cotturello”.

“Oggi”, concluse il vecchio compare, “di lupi, nei boschi del paese, neppure più l’ombra. È finito il tempo dei lupi e dei fatti”.

Si trattenne ancora un poco; poi ci scambiamo gli auguri, e se ne andò, contento del dono fattoci. Il ceppo arse allegro tutta la notte di Natale. La mattina dopo ardeva ancora. Al suo calore e alla sua fiamma noi ci scaldammo anche interiormente.

Gennaio 1982


Domenico D’Andrea

 Fonte: D. D’Andrea, Sul filo della memoria, Ottobre 2016