È superfluo ripetere, ancora una volta, che non finisco mai di stupirmi per i tantissimi ricordi della mia infanzia e della prima giovinezza: quelli, cioè, della felice stagione vissuta a Capracotta; ed è ancor più incredibile che essi affiorino con grande potenza emotiva tra i tanti pensieri che si affollano maggiormente in alcuni periodi dell’anno come quello attuale, durante le festività natalizie. Negli ultimi giorni, deluso per non essermi trovato in paese quando è nevicato in abbondanza, mi ha fatto piacere che alcuni vecchi amici mi abbiano affettuosamente invitato a partecipare a una manifestazione ormai caratteristica dell’inizio-anno: una specie di sfilata indossando un classico capo del nostro abbigliamento montanaro, il mantello a ruota che in dialetto viene chiamato “cuappotte à ròta”; io ne conservo gelosamente uno abbastanza antico, in perfette condizioni, che rappresenta un ricordo tra i più belli di mio padre Ottaviano, scomparso nel 1991.
È stato infatti emozionante indossarlo di nuovo, per prova, avendolo fatto lavare dopo il lungo periodo in cui è rimasto chiuso nell’armadio; mi è parso poi, come ho già più volte ricordato, di tornare bambino ripensando a quando papà, che mi veniva a prendere a scuola con le prime avvisaglie di una tormenta di neve, mi riconduceva a casa proteggendomi sotto al suo mantello.
Il mantello, dal latino “mantellum” (“velo”), è un indumento senza maniche di varia lunghezza che si indossa sulle spalle; definito anche “tabarro” (o “capparella”), ha origini lontanissime e basta per questo basta pensare all’espressione evangelica di Matteo (5,40) che dice:
“…e a chi vuol litigare con te e toglierti
la tunica, lasciagli anche il mantello”.
“Realizzato in panno grosso e pesante, di colore scuro solitamente nero, ha un solo punto di allacciatura con una borchia sotto il mento e viene tenuto chiuso buttando un’estremità sopra la spalla opposta in modo da avvolgerlo intorno al corpo” (Wikipedia); va sottolineata, peraltro, la particolare abilità che questo indumento richiede per utilizzarlo e cioè quella di saperlo tenere ben arrotolato, in modo da esaltarne le già straordinarie capacità di protezione: cui contribuisce moltissimo il bavero di pelliccia risalente lungo il collo.
Nel Medioevo il mantello, spesso sontuosamente decorato, distingueva i re, i sacerdoti, i nobili e le dame dalla gente semplice, che non poteva permetterselo; e sono emblematici gli episodi di san Martino e di san Francesco che donano per carità il loro mantello al povero. Accogliere una persona sotto al proprio mantello voleva dire, inoltre, concederle la propria protezione e la Madonna della Misericordia, è raffigurata non a caso con i fedeli sotto al suo mantello.
A Capracotta accadeva spesso che venisse anche, impropriamente, adoperato per non sprofondare nella neve alta; sia pure in estrema emergenza infatti, naturalmente indossando altri abiti pesanti, veniva steso sulla neve a mo’ di tappeto perché vi si potessero fare almeno due passi sopra per poi ripetere la stessa operazione…fino a che non si fosse giunti, finalmente, al coperto.
Restando in tema, è molto famoso il miracolo del 1450 attribuito a san Francesco da Paola: che, gettando il suo mantello sulle onde del mare e tenendolo teso con il suo bastone, creò una specie di “barca a vela improvvisata” con cui riuscì a raggiungere la costa siciliana.
Stante ora la mia venerabile fascia di età, è comprensibile che mi tornino in mente le parole di una vecchia, famosissima canzone con parole di Libero Bovio e musica di Nicola Valente, intitolata “Signorinella”:
“Al mio paese nevica,
e il campanile della chiesa è bianco,
tutta la legna è diventata cenere, …
…io qui son diventato il buon don Cesare,
porto il mantello a ruota e fò il notaio…”.
Riaffiora così, nonostante il mio sforzo di esorcizzarla, tanta nostalgia di quegli anni remoti e ancora una volta mi accorgo di sognare ad occhi aperti; anche per altri motivi infatti, proprio in questi giorni dal clima molto rigido, ricordavo il famoso film del 1957 intitolato “Uomini e Lupi” e girato a Scanno, in Abruzzo.
Me ne è sempre rimasta impressa una scena in cui alcuni uomini, indossando il mantello a ruota affrontano con gli sci una lunga discesa; sono uno accanto all’altro mentre il vento, spalancando i lembi dei loro mantelli neri, li fa vagamente rassomigliare a favolose creature alate.
Ora so bene che non ci sarà un regista in grado di riprodurre per me la stessa scena, ma sono certo che saranno questi i miei pensieri e le mie fantasie: sempre che, come mi auguro di cuore, io possa ancora indossare, a Capracotta, il mio vecchio “cuappotte à ròta”.
Aldo Trotta