Vincenzino Di Nardo (1872-1957)
Vincenzino Di Nardo (1872-1957), Tatuccio per noi nipoti, da tutti in paese conosciuto come Don Checco. Calzolaio dal passo agile e veloce, arguto e dalla battuta pronta e pungente, aveva nel corso del ragionamento un intercalare “ca” che inceppava talvolta il fluire del discorso. Iniziava la giornata, in qualunque stagione e con ogni tempo, con l’espletamento delle funzioni fisiologiche a “ponte di ferro”, dietro la pineta di S. Giovanni. Non esistevano all’epoca reti fognarie; i pitali venivano svuotati d’inverno nella neve e nelle altre stagioni nelle stalle oppure dalle finestre in prossimità delle abitazioni. Altissima all’epoca la mortalità infantile! Unici svaghi di Don Checco erano le passeggiate nella campagna dei dintorni ed “il bicchiere” con gli amici il pomeriggio del fine settimana presso la cantina di Angelarosa di Pompeo (zia Jocia).
Alcuni episodi della sua vita, ancora vivi nella memoria paesana, mettono a fuoco la natura di un singolare personaggio, uno dei tanti, tipico del suo tempo.
“Ca” attura (1911). Dal matrimonio con nonna Carolina ha avuto sei figli, di cui 4 femmine. Nel 1911, padre già di 4 figli, mentre assolve al consueto rito del “bicchiere” con gli amici, arriva di corsa il primo dei figli, mio padre Cicciotto, per annunciare la nascita di una sorellina (zia Ertiglia). Auguri, auguri ed un giro di bicchiere in più per l’evento. A distanza di pochi minuti però giunge di nuovo Cicciotto trafelato per comunicare l’arrivo di un’altra sorellina (zia Cietta). Non esisteva all’epoca l’ecografia! Agli evviva degli amici per un altro imprevisto e gradito giro di bicchiere, fa eco la battuta di mio nonno “Ca” attura, attura mò…
Menu mal ca siè Signuria (circa 1915). Don Tommaso Mosca (1859-1927), insigne giurista, Consigliere presso la Corte di Cassazione a Roma nonché onorevole alla Camera dei deputati, passava un mattino d’estate di buonora lungo la strada principale del paese, ignaro della sorpresa che lo aspettava. Mia nonna Carolina, frettolosamente e senza troppo sporgersi dalla finestra per non essere vista, svuota in quel momento il pitale dei fluidi notturni sulla strada sottostante. Con la coda dell’occhio, troppo tardi però, si accorge di aver centrato un passante; quando mette a fuoco la figura di Don Tommaso corre terrorizzata verso mio nonno per avvertirlo dell’accaduto. Senza pensarci troppo Tatuccio, armato di strofinaccio, si precipita in strada verso l’illustre concittadino visibilmente contrariato e con lo sguardo ancora rivolto verso la screanzata finestra. Mentre premurosamente lo sta asciugando, di getto, prima che Don Tommaso possa proferire parola “Madonna, Dun Tomas, menu mal ca siè Signuria, ca s’era n’ualtr m’avess già fatt la querera” (Madonna, Don Tommaso, meno male che siete voi perché un altro mi avrebbe già querelato)! La fulminante e sorprendente battuta mise il malcapitato galantuomo in condizione psicologica tale da non dare alcun seguito all’accaduto.
“Ca” allora i so ‘r cuainat d S. Francisc (circa 1930). Mia nonna Carolina (nononna per noi nipoti) era cattolica molto devota, attentissima a rispettare comandamenti, prescrizioni, ricorrenze, mai dimentica della comunione, sempre pronta ad operare nuovi fioretti (la povertà aiuta chi alle privazioni è avvezzo!). Sua amica e sorella di preghiere e rosari era Maddalena De Renzis, madre di un bambino che sarebbe poi diventato sacerdote molto amato dai Capracottesi, Don Alfredo, recentemente scomparso. Nel tardo pomeriggio di un fine settimana, al rientro dal consueto “bicchiere”, Tatuccio torna a casa e non trova nessuno; chiama ripetutamente nonna Carolina ma senza risposta. Sale in camera e grande la sorpresa nel vedere nononna e Maddalena inginocchiate vicino al letto, con il rosario tra le mani ed una candela accesa sul comodino davanti all’immagine di un santo. Era prossima la festa di S. Francesco. Alla domanda su cosa stessero facendo le pie donne rispondono “siamo le sorelle di S. Francesco”; pronta la risposta di Don Checco “Ca” allora i so ‘r cuainat d S. Francisc (allora io sono il cognato di S. Francesco).
“Ca” vattr a chiagn for (circa 1940). La bottega in cui lavoravano Tatuccio e mio padre si trovava a piano terra ed affacciava sulla via principale; di fianco al retrobottega c’era, come in molte altre abitazioni del paese, la piccola stalla per gli animali indispensabili ai fabbisogni del lungo inverno (la capra, le galline,..). Quel giorno forse mio nonno era piuttosto nervoso ma la gallina dopo aver fatto l’uovo non la smetteva con il suo coccode’. Fatto sta che spazientito Don Checco si precipita nella stalla, afferra la gallina e la scaraventa in strada insieme all’uovo dicendo “ca” vattr a chiagn for” (vai a piangerlo fuori)!
Un mantello a ruota sventola nella bufera (circa 1950). In una giornata d’inverno con la bufera che imperversa, Dora Carnevale, da dietro ai vetri della finestra della cucina, in una delle ultime case del rione S. Giovanni, vede sventolare in strada, semisommerso dalla neve, un mantello nero. Avverte subito il marito il quale di corsa si precipita fuori e recupera semiassiderato Don Checco il quale, come al solito, in qualunque stagione e con ogni tempo, si stava recando a “ponte di ferro” per espletare i suoi bisogni. La rete fognaria nel paese era già stata realizzata!
“Ca” l’ai avuta p’ senza nient (1955-56). Un progressivo deterioramento mentale, con sprazzi di transitoria lucidità, ha caratterizzato gli ultimi due anni di vita di Tatuccio. Intatta è rimasta fino alla fine la voglia di uscire, sfuggendo spesso alla sorveglianza dei familiari. L’ambiente paesano ha sempre rappresentato però una fascia di protezione per cui spesso veniva riaccompagnato a casa da qualche amico o conoscente. Un giorno toccò alla nostra vicina di casa, Carmeluccia, amica di mia sorella e ragazza più bella del paese, riaccompagnarlo a casa per mano. Al momento di congedarsi, prima di lasciarle la mano, con il suo solito sorriso, esclamò: nu giovan chesta mian chisà quant l’avess paata; “ca” i l’ai avuta p’ senza nient (un giovane questa mano chissà quanto l’avrebbe pagata; io l’ho avuta gratis)!
Era mio nonno; lo ricordo sempre con il sorriso dolce, il passo svelto e leggero, piuttosto curvo gli ultimi anni, il vestito nero piuttosto liso, la sigaretta “alfa” fumata fino a bruciarsi le dita; mai avaro di carezze.
Vincenzino Di Nardo